A Sette: «Non faceva nulla per impulso. Era padrone di sé delle sue emozioni, si poneva un obiettivo e lo seguiva. Aveva gran controllo»
Finardi: «Battiato era idolatrato da strafatti eppure non ha mai assunto droghe»
In un’intervista a Sette, settimanale del Corriere della Sera, Eugenio Finardi racconta Franco Battiato. I due hanno iniziato la carriera di musicisti e cantautori insieme, nella Milano dei primi anni Settanta.
«Lui era il Cantautore perfetto. Colui che ha raggiunto più equilibrio fra testo e musica, in un rapporto miracoloso al 50 per cento, e poi quella tecnica vocale quasi salmodiata che dava il tono. Parole semplici per concetti profondi».
Finardi continua:
«Era idolatrato da quel pubblico, tutti strafatti che sognavano con la sua sperimentazione…».
Ma Battiato non ha mai assunto droghe.
«Mai, niente droga, ed era proprio un paradosso che riuscisse ad arrivare là solo con la sua musica. Lui aveva un grande distacco, ma allo stesso tempo ironia. Aveva una capacità di osservare anche criticamente gli esseri umani, e un grande senso del ridicolo e dell’umorismo, era lontano da tante cose, dai fanatismi politici o religiosi, non era né di destra né di sinistra. Li osservava da lontano, e lo aiutava la meditazione e la sua conoscenza/passione per lo scrittore mistico Gurdjieff. Non credo abbia mai aderito a una religione in particolare, ma credeva nella spiritualità dell’uomo. La grande domanda era: ci è o ci fa? Risposta è che ci era e ci faceva. Aveva profonde convinzioni spirituali che indirizzava, rendeva universali. Era una persona intenzionale, quello che faceva non lo faceva per impulso. Era padrone di sé delle sue emozioni, aveva grande consapevolezza, si poneva un obiettivo e lo seguiva. Aveva gran controllo già allora».
Finardi racconta di essersi sempre sentito diverso e che forse questo lo accomunava a Battiato.
«Io mi sono sempre sentito diverso. Sono figlio di una cantante americana, albina e di origine tedesca. E questo negli anni Cinquanta faceva la differenza. Avevo due lingue madri, andavo a scuola vestito già con le tutine a righe che
ora hanno tutti, ma allora tutti gli altri avevano i sandaletti blu con i buchini. E stavo fuori dall’aula nell’ora di religione. Quante volte, mi raccontava mia madre, sul tram in quegli anni vedendola così diversa, con quei colori quasi bianchi, le dicevano “torna a casa, tedesca!”. Lei parlava italiano come Shel Shapiro, con un accento talmente forte che a volte mi vergognavo. Tanto che io con Shel ho parlato sempre inglese per evitare di sentire quell’accento e lui mi rispondeva in italiano. Poi una volta gli ho detto: Sai che mi sembri mia madre?. Da allora anche lui è passato
a parlarmi in inglese».
Battiato era anche un po’ spocchiosetto?
«Lo era velatamente quello che ho conosciuto all’inizio. Un misto di arroganza intellettuale, modestia, consapevolezza».
Poi con la svolta dei primi anni Ottanta, con La voce del padrone e il successo, si è ammorbidito. Con La voce del padrone (un milione di copie vendute) è diventato il padre nobile, il Maestro.
«E c’è riuscito senza aver venduto l’anima. In quel disco dava del cretino a tutti, al pubblico, ai discografici, faceva critiche feroci. Tutti cerchiamo l’approvazione e dopo quel successo lui è stato molto generoso, accogliente con giovani come Morgan, Carmen Consoli, Alice. Lui, come tutti i grandi, pativa a essere divinizzato. La fama senza cultura è dannosa, molto pesante da gestire. Porti sulle tue spalle i sogni di milioni di persone che non riusciranno mai a capire chi tu sei dentro. Lui era molto attento all’ immagine, io per esempio no, sono stato grasso, magro, capelli lunghi, corti, barba…».
Lo ha mai invidiato?
«Sì perché in fondo eravamo simili e non abbiamo mai rinunciato a una certa alterità. Ma lui era riuscito a parlare all’anima della gente. Finalmente era accettato e questo gli dava serenità. Il vero successo è quello che non mummifica, ma libera e incoraggia. E anche questo l’ha vissuto con distacco gurdjieffiano, con la capacità di essere generoso di sé».