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È la rendita di posizione che addormenta Napoli (in realtà l’Italia)

POSTA NAPOLISTA – Nella Napoli di Ferito a morte si era comunque formata una élite intellettuale capace di fare gruppo. Credo che Napoli non sarà solo la città dei ritorni

È la rendita di posizione che addormenta Napoli (in realtà l’Italia)
Scrittore italiano Raffaele La Capria. Italian writer Raffaele La Capria

Gentile direttore, mi è piaciuto molto l’approfondimento che il Napolista ha dedicato al lavoro di Raffaele La Capria e ho particolarmente gradito il dibattito che ne è scaturito. È il segno della vitalità del suo giornale e dell’energia intellettuale dei tanti napoletani (a diverso titolo) che ruotano attorno al Napolista.

Non la voglio tirare per le lunghe, per cui arrivo al punto. Di La Capria ho letto Ferito a morte, naturalmente, e un paio di racconti che furono pubblicati (a suo tempo) sulla rivista dell’Eni Il Gatto selvatico, uno dei quali divertentissimo perché ruotava intorno alle teorie sull’eleganza maschile elaborate da uno zio dell’autore, figura meravigliosamente napoletana per la dedizione alla speculazione pura applicata (anche) alla sartoria.

Detto ciò mi preme far notare che nella Napoli addormentata di Ferito a morte, cioè nella città reale che ha ispirato il romanzo, nonostante le difficoltà del contesto, si era comunque formata una élite intellettuale capace innanzitutto di riconoscersi e far gruppo (che non è cosa piccola), e poi di lavorare insieme, far sentire la propria voce oltre i confini della città e, in ultimo, fare le valigie e partire da Napoli verso il proprio destino.

I nomi più noti li conosciamo tutti: Luigi Compagnone, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Pasquale Prunas (l’editore della rivista Sud), Anna Maria Ortese che di questo gruppo di artisti ha lasciato un ritratto meravigliosamente corrosivo nel Mare non bagna Napoli.

Di tutta questa eccezionale compagine di autori, l’unico a finire i propri giorni in città è stato – se non sbaglio – Compagnone, che aveva il posto fisso da dirigente Rai (così scrive Ortese) e una galassia di collaborazioni giornalistiche molto remunerative in tutta Italia.

Per tutti gli altri il destino si è dipanato altrove, e con fortune diversissime. Anna Maria Ortese, per esempio, è morta in povertà a Rapallo dopo aver ricevuto la Bacchelli per intercessione di letterati e poeti. Prunas è ancora oggi uno dei grandi dimenticati della cultura italiana.

Poteva svolgersi questo destino individuale (e collettivo) a Napoli?

Secondo me, no. E per ragioni che possiamo anche considerare “ambientali” ma che – a mio giudizio – non possono essere riferite unicamente a Napoli.

Intendo dire che, nonostante Napoli sia una capitale per storia, dimensione urbana e fermenti culturali, la città resta eccentrica rispetto al mercato culturale italiano che ha la sua piazza d’affari divisa tra Milano e Roma.

In sostanza Napoli è in grado di fare cultura ma non può produrre cultura. Non come Roma e Milano, per capirci. Per fare cultura è necessario avere a disposizione intelligenze adatte. Per produrre cultura sono indispensabili i mezzi di produzione (editoriali, cinematografici, televisivi etc.) che in città scarseggiano paurosamente e che si trovano altrove.

Accade – con qualche eccezione settoriale – lo stesso a Torino, a Genova, a Palermo, a Bari e in altre città italiane di grandi dimensioni. Non illudiamoci.

Poi c’è un problema di riconoscibilità del lavoro culturale e del suo valore. Ne abbiamo ulteriore conferma da quanto ha detto recentemente De Masi su Francesco Rosi: un posto al catasto è stato il massimo che Napoli sia stata capace di offrire al regista. Che per l’autore de Le mani sulla città è un evidente segno di quanto avrebbe potuto essere beffardo un destino partenopeo.

Sono arrivato a Napoli da studente universitario nel 1993. Piazza Plebiscito alle otto di sera era lasciata al buio. Il Gambrinus era chiuso. Per andare a vedere una mostra su Dylan Dog, una sera ho scarpinato solo soletto per via Duomo in un silenzio inquietante. E avevo paura. Ho assistito alla rimozione degli chalet abusivi dal lungomare, quando una lunga teoria di camion ha attraversato la città portando sul cassone tutte quelle grandi baracche di alluminio. Un evento che allora fu considerato epocale per il ripristino dell’ordinaria legalità. I miei professori erano in significativa quota parte figli di professori o parenti collaterali dei medesimi. I libri nei cassoni di Port’Alba si vendevano a 500 lire. Persino bei libri, che setacciavo tra decine di copie del libretto rosso di Mao sopravvissute al rogo degli ideali di vent’anni prima. Mi interessavo a tutto quello che si faceva in città e giravo un sacco.

Alla Sanità e ai quartieri Spagnoli, però, non ci mettevo piede per prudenza. L’ho fatto in tempi recenti con grande piacere. Il turismo ha portato nuove prospettive con sé e ha reso accessibili luoghi difficili e meravigliosi. È la grande occasione di Napoli, oggi come oggi. Tanti napoletani se ne sono accorti e si sono messi in moto nella maniera opportuna. Altri vivono ancora nel selvaggio West e preferiscono – quando va bene – alleggerire Daniel Auteuil del Patek Philippe da 39 mila euro, condannando una città intera al ludibrio. Ma sono rottami del passato, come quei pistoleri sulla via del tramonto che a forza di andare a ovest finiscono interdetti a rimirare il Pacifico che bagna gli zoccoli del cavallo.

Con buona pace di Lorenzo Insigne, che la sua America l’ha prima trovata a Napoli e solo successivamente in Canada, mi pare che in città molte cose stiano cambiando e che si possa timidamente sperare. Innanzitutto, come anche il Napolista dimostra, si può fare impresa culturale con un approccio originale e con ottimo successo. E ci sono altri esempi, magari non altrettanto di qualità ma significativi.

Forse è venuta un po’ meno la capacità di fare squadra, come La Capria e gli altri allora riuscirono a fare, ma è confortante sapere che una industria c’è, non pesante purtroppo ma viva e palpitante sì.

Altri vuoti restano per ora incolmabili (non c’è un grande editore, per esempio).

Credo che questo accada perché siamo ancora una città legata alla rendita, intesa nella sua accezione più deteriore di avere senza darsi da fare. La rendita di posizione è la cappa che chiude il nostro sguardo al cielo, che divide la società in sommersi e salvati, che fa di una parte consistente del popolo napoletano plebe.

Ecco il narcotico che rende immobile il contesto e feudataria la nostra borghesia, come ha detto giustamente Vincenzo Salemme in una recente intervista. Quando non si ha talento è rendita di posizione tanto lo studio professionale ereditato da papà (o il posto fisso in un quotidiano dove papà ha lavorato, o in università, o all’ospedale, o in politica) quanto lo stabile messo in affitto, sia chiaro. Poi le eccezioni ci sono sempre.

Magari sbaglio, ma sono assolutamente convinto che il problema della rendita di posizione sia una questione nazionale. In forme diverse, s’intende, e con urgenze altrettanto diverse, la rendita è ciò che imbriglia il Paese da Milano a Palermo.

Generalmente, chi ha posizioni di rendita non vuole cambiare mai nulla. E chi vuole cambiare deve andarsene perché non ha spazi.

Dunque Napoli continuerà ad essere una città in cui si potrà unicamente tornare? Penso di no. Forse mi illudo, ma in un futuro che reputo persino prossimo i nostri ragazzi lasceranno Napoli solo per vedere com’è fatto il resto del mondo. O comunque potranno scegliere che fare.

E se questo accadrà lo dovremo unicamente a chi è rimasto.

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