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Mario Rui è il figlio unico della canzone di Rino Gaetano

Non è giovane, non è bello, non è elegante. È il contrario della modernità. È continuamente criticato, spesso a prescindere, ma sta facendo una stagione straordinaria

Mario Rui è il figlio unico della canzone di Rino Gaetano

«E ti amo Mario», è l’urlo, liberatorio, di Rino Gaetano. È il lontano 1976 e il nostro Marittiello (Rui) non è neanche nei programmi dei suoi genitori. E però quei versi sembrano scritti proprio apposta. E non solo per il nome, Mario. Col terzino lusitano, con la sua personalissima situazione, si sposano a pennello. Perché Mario Rui in tutti questi anni è stato continuamente deriso e declassato, sottomesso e disgregato. È uno di quei calciatori a cui – e vale pure per chi lo stima – a Napoli non si può fare un complimento senza metterci un’avversativa subito dopo. È proprio illegale, chi non mette l’avversativa dopo il complimento è passibile di denuncia. Quello che si può dire, proprio esagerando, è che «sì, s’impegna ma non è da Napoli (vedesi alla voce Real Madrid, ndr)», o che «sì, i piedi non sono male, ma non può fare trentotto partite senza ricambi».

«E ti amo Mario» cantava Rino Gaetano a difesa dei figli unici della società. Ecco, Mario Rui è senza dubbio il figlio unico del Napoli. Per tutta la settimana si leggeranno, ovunque, e anche a ragion veduta, articoli su articoli sulla partita autorevole che il giovane (per l’Italia, non per l’Europa) Zanoli ha giocato ieri a Bergamo alla prima in Serie A. Perché è senz’altro una sorpresa. E perché per citare un altro cantautore indimenticabile «gli eroi son tutti giovani e belli». E Zanoli, alto un metro e novanta, chioma fluenta, passo felpato, eleganza fuori dal comune, calcio pulito e avvenire tutto da scrivere, è proprio giovane e bello. Nel calcio (e nella vita) però a volte c’è pure bisogno di guardare oltre. Alla società servono pure gli altri. Che belli non sono, che giovani non sono, che magari fanno il lavoro sporco, che s’incazzano, che di elegante non hanno niente. Che sono «sfruttati, repressi, calpestati, odiati», che la sofferenza pare che la portino dentro, ma che con la loro beffarda convinzione che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni sono capaci perfino di regalare qualche scorcio d’originalità.

Mario Rui non è giovane, non è bello, non è elegante. E anzi è esattamente il contrario. È il contrario della modernità. È tutt’altro che scarso tecnicamente (checché se ne dica), ma non si fa certo notare per una qualche particolare abilità. Si fa notare, piuttosto, proprio perché è un figlio unico. Prevale il metro e sessantotto, l’aria rabbiosa, lo sguardo scontroso di chi non si fida di nessuno. ‘A cazzimma, l’andamento quasi dinoccolato. E poi l’attitudine alle risse: quante ne ha fatte da quando gioca nel Napoli? Non si contano. Irascibile, istintivo, nervoso. Di aggettivi se ne sono spesi tanti. Di complimenti, a volte, pochi. Troppo pochi. Gli andrebbero fatti, invece. Per questa stagione straordinaria e non solo. Senza il timore di essere smentiti dai capiscers e dalle loro questioni di principio. Da chi critica i film senza prima vederli. Da quelli che ad agosto si divertono a fare le formazioni tipo e lo lasciano sempre in panchina.

Oggi va cantato assieme a Rino Gaetano, allora, quel ritornello. Con un piglio perfino un po’ strafottente. «E ti amo, Mario-oh-oh», nonostante tutto.

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