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«Mangiamo la loro spazzatura e siamo qui da anni», così vivono i prigionieri-rifugiati dell'”Hotel Djokovic”

Il racconto de L’Equipe: la detenzione di Djokovic nell’albergo degli irregolari ha illuminato una realtà sconosciuta, fatta di soprusi e violenza

«Mangiamo la loro spazzatura e siamo qui da anni», così vivono i prigionieri-rifugiati dell'”Hotel Djokovic”
Roma 18/05/2017 - Internazionali BNL d'Italia / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: Novak Djokovic

Novak Djokovic non abita più a Swanston Street. Dove prima c’era un invisibile albergaccio per immigrati irregolari bloccati alla frontiera, e poi d’improvviso è nato l’Hotel Djokovic. Lo stesso postaccio di prima, ma illuminato a giorno dai fari della ribalta internazionale. La detenzione del numero uno del mondo del tennis ha colto di sorpresa gli altri “ospiti”, alcuni lì da anni senza che nessuno se li filasse.

L’Equipe racconta questa realtà parallela, a tratti imbarazzante. Trentasei profughi sono prigionieri del Park Hotel da mesi, a volte anni – scrive il giornale francese – al secondo piano di quello che hanno soprannominato il “centro di tortura” in un’indifferenza generale interrotta solo dall’arrivo, giovedì, al piano di sopra, di Novak Djokovic.

“Quando abbiamo visto le persone che manifestavano sotto le nostre finestre per Djokovic e la presenza di tutti questi media, ci siamo rattristati, sospira Ismail Hussein, un somalo di 30 anni. Le nostre vite non hanno valore. Il rumore che hanno fatto per lui in questi pochi giorni, se lo avessero fatto per noi in tutti questi anni, saremmo liberi da molto tempo”.

“Purtroppo non siamo arrivati ​​qui in aereo ma in barca”, aggiunge Joy Mohammad, 42 anni del Bangladesh. Non siamo venuti per giocare a tennis ma per sfuggire alla morte”. Somalia, Bangladesh, Iran, Pakistan, Afghanistan. tutti perseguitati per motivi religiosi o etnici. Nel 2013 tutti hanno tentato di raggiungere l’Australia a bordo di pescherecci. Arrestati dalla Marina australiana e collocati in centri di detenzione al largo tra Nauru e Papua Nuova Guinea. “Le guardie che avrebbero dovuto proteggerci ci picchiavano”, dice Ismail. “Un giovane, Reza Barati, è stato picchiato a morte nel 2014. Nel 2015 abbiamo manifestato per la nostra libertà. Ci hanno messo in galera. Nel 2017 volevano chiudere il campo in cui vivevamo e metterci altrove. Abbiamo protestato, hanno tagliato l’elettricità, l’acqua e ci hanno privato del cibo per ventiquattro giorni”.

Esausto da sei anni in una prigione senza nome, Jamal Mohamed si è dato fuoco nel 2019, a Nauru: “Non avevo futuro”, racconta il 38enne pachistano, le cui ustioni di terzo grado ora coprono il 52% del corpo. Trasferito in Australia come “rifugiato medevac” (dal nome della legge sull’evacuazione medica) ha trascorso due anni in un hotel a Brisbane prima di essere trasferito al Park Hotel l’anno scorso. Quello che oggi è l’Hotel Djokovic

“Ho passato due settimane in isolamento indossando gli stessi vestiti. Ero molto malato, tremavo dappertutto e ho dovuto aspettare ore per il paracetamolo. Regolarmente, trovo vermi o muffe nel mio cibo. Mangiamo la loro spazzatura, siamo avvelenati. Ci stanno uccidendo! Non siamo considerati esseri umani”, aggiunge Joy Mohammad.

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