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Arantxa Sanchez, l’inventrice del “vamos!”: «Quando ho cominciato cacciavano le donne dal campo perché serviva ai maschi»

Intervista di El Mundo alla grande tennista spagnola: “A 13 anni vinsi e urlai che eravamo discriminate, che avrei cambiato il tennis. L’ho fatto”

Arantxa Sanchez, l’inventrice del “vamos!”: «Quando ho cominciato cacciavano le donne dal campo perché serviva ai maschi»

Aránzazu Isabel Maria Sánchez Vicario, per tutti Arantxa. La prima grande tennista di Spagna, forse la più grande. Capace in un solo anno, il 1994, di vincere Roland Garros e US Open, finalista in Australia, numero 1 al mondo. E’ un manifesto ambulante di tennista, donna, di estremo successo, con tutti i fantasmi e gli stravolgimenti che una carriera così si porta appresso. E’ lei l’inventrice del “vamos!“, l’esultanza iconica del tennis: “Sì, ma dovevo brevettarlo. Peccato che non l’abbia fatto perché ora lo usano altri e se la stanno cavando molto bene. Anche Nadal”.

El Mundo l’ha intervistata scavando fin dove ha potuto.

“Il tennis funziona come l’onda del surf che sale e scende sempre, quando sei in campo sei come i gladiatori del Circo Romano, dimentichi tutto e devi sopravvivere”.

Lei si dice consapevole di aver frantumato la barriera tra tennis maschile e femminile: “Ho iniziato in un momento in cui si parlava solo di sport maschili e, suppongo, ho aperto gli occhi a molte ragazze. Per le donne, l’accesso allo sport era molto limitato e non si vedeva in tv, tutte le luci erano rivolte agli uomini. Noi donne dovevamo realizzare delle vere imprese perché le persone parlassero di noi”.

Racconta un episodio:

“La mia mentalità è cambiata quando sono diventata campionessa assoluta di Spagna a 13 anni, la più precoce della storia. Ho battuto in finale Ninoska Souto, che all’epoca era la numero 1 del paese e giocava già tra i pro. Abbiamo iniziato la finale sul campo centrale e il primo set è stato abbastanza lungo, alla fine del primo set ci hanno detto che dovevamo andare a completare la partita su un campo secondario, perché dovevano giocare gli uomini. In finale c’era mio fratello Emilio, trasmettevano la partita in tv. Dopo aver finito, ho dovuto aspettare ancora lì fino a quando i ragazzi non avevano terminato la partita. Solo allora mi hanno fatta entrare per premiarmi. Quando ho preso il microfono alla cerimonia, ero super arrabbiata e ho detto: ‘Questa è discriminazione, non può essere che ci trattino così, abbiamo gli stessi diritti degli uomini e io, Arantxa Sánchez Vicario, cambierò questo e non accadrà più’. Una ragazza di 13 anni che fa quel discorso invece di celebrare il titolo. Erano tutti molto sorpresi, ma è lì che è iniziato il cambiamento. Penso che quel giorno ho iniziato a essere una guerriera, ma ho mantenuto la mia promessa. Ho cambiato le cose”.

Arantxa racconta la sua infanzia “circondata da palle e racchette”: “all’improvviso, senza rendermene conto, il tennis era la mia vita”:

“A 13 anni, la Federazione tedesca mi ha dato una borsa di studio per il centro per atleti d’élite che aveva a Marbella ed era un’opportunità che non potevo rifiutare. Potevo allenarmi con i migliori: Steffi Graf, Claudia Kohde-Kilsch, Boris Becker, Michael Stich… Ore e ore di durissimo allenamento. Mi ha reso una giocatrice migliore, ma ho avuto momenti brutti e duri, di solitudine e pressione eccessiva. A livello di tennis ha funzionato, ma ho sacrificato molte cose a livello umano. Sono arrivata e lì ho unito il tennis con la scuola, parlavo e studiavo solo in tedesco, di cui non conoscevo una parola”.

Sanchez ha anche una storia da Open. Fatta di un libro durissimo contro la sua famiglia, e di pentimento.

Il libro è stato un errore, un grosso errore. Oggi non l’avrei scritto, ma in quel momento mi sono lasciato consigliare e manipolare da persone che non volevano il meglio per me. L’ho pubblicato perché mi hanno convinto che sarebbe stato qualcosa di positivo nella mia vita e, in seguito, ho scoperto che non era così e che questa persona, il mio ex marito Josep Santacana, aveva i suoi interessi nel rompere con la mia famiglia. Non tutto quello che ha detto nel libro sui miei genitori era vero, anche se credevo che lo fosse. La situazione è sfuggita di mano, ma sul momento non ho visto le cose chiaramente. Se potessi cambiare una cosa del mio passato, sarebbe questa. Ho chiesto loro perdono e stiamo recuperando la normalità. Purtroppo il danno era già stato fatto, alla fine mio padre si è trovato in una situazione di salute complicata, soffriva di Alzheimer, ed è morto senza la nostra riconciliazione. Una cosa che mi pesa ancora e mi peserà per sempre”.

 

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