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“Non mi hai chiamato, ti chiudo in un gulag”. Non è più Gomorra, è Beautiful coi Tmax

L’ultima stagione è diventata una resa dei conti macchiettistica tra due suscettibilissimi bambini delle elementari

“Non mi hai chiamato, ti chiudo in un gulag”. Non è più Gomorra, è Beautiful coi Tmax

Visto che siamo tra persone perbene un avvertimento dovuto: questo pezzo contiene spoiler sui primi due episodi della quinta stagione di Gomorra. Chi non è al passo, torni qui quando sarà più preparato.

Una volta Gomorra era una serie quasi neorealista. Per abbondanti due stagioni ha tenuto inalterati i toni del film di Matteo Garrone: un pantone di cruderie, facce giuste, scrittura asciutta. Se n’erano accorti pure i critici del New York Times. Poi ad un certo punto è diventato un prodotto della Marvel. In cui vale ogni contorsione: dagli studenti universitari che fanno le “stese” a Forcella, ovviamente in solitaria, alla gente che muore e risorge sott’acqua con un proiettile piantato ad un centimetro dal cuore. La quinta stagione, l’ultima pomposamente lanciata la scorsa settimana da Sky, è il frutto di questa lunga deviazione autoriale. Ci siamo arrivati, eccoci qua.

E dunque nel “Gomorruniverso” – ci viene ribadito subito – il galateo dei sentimenti comanda tutto. Per cui se uno che ti ha ucciso la mamma, il papà, e ti ha sparato alla testa, uno a cui tu stesso hai sparato al cuore e gettato moribondo in mare, si ritira all’estero e non ti chiama più, beh, poi ci resti un po’ male. “Non ti sei fatto più sentire. Sei un cafone”, tipo. E lo segreghi in un gulag. A vita.

E’ il corrispettivo del blocco su Whatsapp per noi noiosi mortali. Ma a Gomorra la “scompa” è un fatto serio, va lavata con la tortura in regime di 41 bis.

Ciò detto, l’altro – non si fosse capito parliamo di Ciro l’immortale – che fino ad un primo piano fa s’era commosso a vederti così inconsolabilmente preda d’una crisi ormonale (uno che ha pur sempre ucciso la madre di sua figlia, eh) reagisce un po’ piccato: “Tu nun si’ all’altezza e sta vicin’ a me. Prega a Dio che nun esco a ca dint…”. Venti minuti dopo è già uscito. Non ci sono più i gulag d’una volta.

E’ chiaro che mettere una pezza al papocchio del protagonista morto-ma-non-troppo non era facile. Anche Ridge risorse e non ne facemmo tutta ‘sta tragedia. In fondo Gomorra è Beautiful, ma coi Tmax.

Con soli dieci episodi alla fine dell’epopea gli sceneggiatori ne hanno dovuti sprecare due: uno per riprendere il filo della narrazione, l’altro per stringere il campo sulla “bromance” tra Genny e Ciro. Come li mettiamo uno contro l’altro? Come la organizziamo sta resa dei conti shakespeariana? Soluzione: trasformiamo due spietati pezzi di merda in suscettibilissimi compagni di scuola primaria.

Il fulcro quindi, al netto di agguati coi lanciamissili, esplosioni tamarre, sangue consumato espresso, è tutto in quel gioco di rinfacci. “L’ho fatto per proteggerti” spiega Ciro come farebbe un qualunque protagonista di soap brasiliane anni 80. Ma Genny non ci sta: “Non sai che si prova a pensare di aver ucciso un fratello”. Detto a uno che ti ha massacrato la famiglia. Di più: “Quando avevo bisogno di te tu non c’eri”, aggiunge. Ciro a quel punto è tentato di opporgli un ragionevole “vabbé, ma è perché mi hai sparato lasciandomi affogare”, ma poi no: si scusa. Silenzi, sguardi all’orizzonte, corrucci agonistici. Ciro è una persona seria, le obiezioni se le fa da solo.

Ora, leggerete centinaia di righe in cui vi spiegheranno la profondità della metafora della prigione parallela, quella autoimposta di Genny e quella forzata di Ciro. Ascolterete ore di accenti sulla vittoria dell’amore, sui contrasti tra bene e male, e tonnellate di menate accessorie. Ma il senso compiuto di questo arrivo in volata della serie è che ci sono due fidanzati stronzi che prima si maltrattano, poi si dicono che si amano tanto, poi finisce tutto a ramengo. Fino alla catarsi che verrà.

La confezione salva il contenuto. Lo stile visivo, sonoro, fotografico è sempre affascinante, è un bestseller che resiste al tempo. Ma dentro al pacco c’è un mattone. Recitazioni sopra le righe, spesso caricaturali. Con quel penalizzante dialetto “acconciato” per rendersi intellegibile anche allo straniero che non frequenta Ponticelli, Scampia e quelle ristrettezze lessicali. E poi i dialoghi, tutti pesantissimi. Scritti come se ogni passaggio dovesse finire nelle “quotes”, negli highlights. Inneschi per parodie, uno dietro l’altro.

E il miscasting, parliamone. All’inizio della serie buona parte del cast di supporto era preso dalla strada, e dalla scena napoletana più stretta. E si vedeva. Col diluirsi del racconto, sono arrivate altre dizioni, le espressioni cariche a sproposito, tutto un po’ posticcio. Esempio: O’ maestrale.

Il signor “maestrale” era stato introdotto sul finale della quarta stagione calcando sull’epica misteriosa del supercattivo. Tempo un episodio e si rivela “nu scem”. E non perché lo diciamo noi – massimo rispetto, eh – ma glielo dice in faccia proprio Genny: “Sì nu scem’ Maestra’!”. Tanto è vero che comanda la moglie. Il Maestrale è un “sottone”, come si dice. E come tale è recitato, peraltro con una fisicità da busto ortopedico Gibaud.

E’ inutile fare ulteriori pulci al copione, ai punti della storia azzeccati con lo sputo, alla trama incastrata come si faceva da bambini coi pezzi dei puzzle per farli combaciare per forza.

Ci vendono una fuga da Alcatraz in laguna lettone, con un camorrista in barca a remi che viene adottato da tre anziani pescatori pronti ad immolarsi per lui un quarto d’ora dopo sparando all’impazzata su ex agenti del Kgb (che se non c’è almeno una spia russa, non puoi mai dirti all’est). Bruce Willis prendi appunti.

Così come dovremmo farci passare per buono il corso al British di Genny durante la latitanza: l’avevamo lasciato quasi analfabeta, lo ritroviamo a trattare carichi di droga con l’inglese fluente di John Peter Sloan. O l’orientamento da Garmin umani degli autisti che guidano al cimitero di Prima Porta o alla periferia di Riga senza gps, a intuito. E’ pur vero che se hai guidato a Napoli sai guidare dappertutto.

In mezzo, un fitto reticolo di alleanze riannodate e sciolte, mentre lo spettatore cerca di raccapezzarsi su chi dovrebbe ammazzare chi e perché, ma va bene tutto purché si sparino fortissimo e amen. Ne fa le spese anche il Napolista Nello Mascia, e quello sì è un colpo al cuore.

Fa tutto parte della stessa artefatta costruzione decadente: una riduzione ai minimi termini d’una storia nata per essere esemplare e finita accartocciata su dinamiche condominiali. Con i criminali a parlarsi in faccia, le mani avvolte dietro la nuca, il monologo a punta di coltello teatrale, la tensione sessuale. Occhi negli occhi, sempre. Anche per chiedersi ‘che ore sono?’.

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