Gianni Morandi: «Sono un Forrest Gump, ci vuole fortuna e pure saper prendere gli schiaffi»
Al Fatto quotidiano: «Le persone mi fermano e mi passano il telefono per gli auguri ai parenti. Per convincerli che sono io, canto “Fatti mandare dalla mamma”. Sembra che non abbia inciso altro»

Bella l’intervista del Fatto quotidiano – Alessandro Ferrucci – a Gianni Morandi. Che racconta anche del perché accettò il selfie con gli infermieri mentre era in ambulanza ustionato.
È più difficile dire “no”, perché tocca motivarlo e poi ti becchi pure dello stronzo; il “sì” è facile e veloce.
Racconta che spesso gli passano il telefono per fare gli auguri alla zia, alla nonna, al cognato che si sposa.
E al telefono devo convincerli che sono realmente io. Quale tecnico adotto? Inizio a cantare Fatti mandare dalla mamma. È una specie di incubo, sembra che non abbia inciso altro; (pausa) tra una settimana, dieci anni o venti, quando me ne andrò, in televisione manderanno Fatti mandare dalla mamma. Chissà perché, forse ricorda un periodo felice dell’italia, gli inizi del boom, o forse perché contiene due termini chiave: mamma e latte. Ho provato a toglierla dal repertorio, alla mia età mi sembrava assurdo cantarla, ma finito il concerto il pubblico ci restava malissimo e iniziava a intonarla; oramai è una forma di rituale talmente consolidato da aver perso senso. Quasi nessuno pensa al ragazzo che invita la ragazza a trovare una scusa per vedersi: ci sono nonne che la insegnano ai nipotini di tre anni.
Non credo di essere un grandissimo artista, mi son trovato al posto giusto nel momento giusto. Non ho fatto la storia. L’hanno fatta Modugno e Lucio Battisti. Io no. Ero lì. Sono un testimone. E in questi decenni ho conosciuto tutti, ho incontrato tanti papi, politici come Andreotti, intellettuali del livello di Pasolini, registi tipo Bertolucci, Visconti o De Sica, attori come Sophia Loren, cantanti. C’ero. Passava il treno e lo prendevo.
Messa così sembra un Forrest Gump.
La mia storia è Forrest Gump, in fin dei conti nasco dilettante, senza scuola e senza niente, poi un arbitro di pugilato mi consiglia di tentare con la boxe, invece arriva il provino con la Rca e Migliacci racconta che il nastro con la mia canzone gli cade per terra, gli si attorciglia alla caviglia e incuriosito lo ascolta. Gli piace. Mi dà Andavo a cento all’ora.
Una volta lì, per imparare, ho rubato a tutti, poi un sorriso, una manata amichevole, un abbraccio, essere positivi, allegri e non rompere le palle. Realmente ho rubato a Mina, Celentano, e ora a Jovanotti: con la sua voglia di rischiare, la sua energia, il desiderio di provare cose nuove; avevo la quinta elementare, e quando sono andato al Conservatorio di Santa Cecilia pretendevano la terza media: così mi sono iscritto a una scuola serale. Ci vuole fortuna e pure saper prendere gli schiaffi.