Spalletti è allenatore da emozioni estreme, non vi farà annoiare
Un romanista ci scrive e lo definisce il più grande tecnico della Roma contemporanea, andato via in una nuvola d’odio. Per Totti.
Un romanista ci scrive e lo definisce il più grande tecnico della Roma contemporanea, andato via in una nuvola d’odio. Per Totti.
A Luciano Spalletti non manca il senso del palcoscenico, della battuta teatrale. “Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli”, è uno dei suoi mantra da conferenza stampa, un meme quando i meme nemmeno esistevano. Il Napoli ha preso un uomo forte. Un tecnico meraviglioso, con alcuni limiti importanti.
Spalletti ha suscitato emozioni estreme. E’ stato il più grande allenatore della Roma contemporanea, l’ultimo a vincere dei titoli, ma se n’è andato via in una nuvola d’odio. Ha fatto il gesto allo stesso tempo più romanista e meno romanista di tutti i tempi: ha ammazzato Totti. Si è preso la responsabilità immane di finire la carriera del più forte e più amato; l’unico intoccabile di una città che divora e copre tutti di ridicolo. L’ha fatto con un coraggio che confina con l’incoscienza, seguendo la linea di un principio inderogabile. Un uomo mortale contro una fede collettiva, una divinità pagana. Quel principio era straordinario: la Roma viene prima di tutto, è più grande anche di Totti.
Il metodo, invece, tradisce i limiti di Spalletti. In certi momenti è sembrato ottuso e vendicativo, come quando gli ha negato l’ultimo applauso di San Siro, a fine campionato e a margine di una partita già dominata e vinta. Al posto di Dzeko fece entrare Bruno Peres, era l’84esimo minuto e la Roma vinceva 3 a 1. Per somma beffa, sessanta secondi dopo ha avuto un calcio di rigore: sarebbe stato l’ultimo gol della carriera di Totti.
Il Capitano – con cui aveva avuto un rapporto persino dolcissimo in certi momenti, durante il primo mandato alla Roma – l’ha ripagato con un risentimento colossale, inossidabile: in due anni ha fatto sfornare un’autobiografia, un film e una terribile serie tv solo per raccontare la fine della sua carriera immensa per colpa di un uomo piccolo, cattivo e pelato. Spalletti ha attraversato con signorile silenzio lo tsunami mediatico tottiano, rinchiuso nel suo agriturismo fiorentino: non ha detto nemmeno una parola.
A Roma Spalletti sarà ricordato per sempre e quasi esclusivamente per questa faida colossale, nonostante una minoranza crepuscolare di nostalgici che gli hanno perdonato tutto e gli riconoscono ogni merito. Quasi tutti dimenticano le cose di campo. Spalletti è stato un allenatore gigantesco. Venne da Udine nell’estate del 2005, prese una Roma in totale disarmo: indebolita e indebitata, reduce da una stagione con tre cambi di allenatore chiusa all’anticamera della serie B, congelata da una squalifica che le impediva di fare mercato (prese solo due svincolati: l’inutile Shabani Nonda e Rodrigo Taddei). La rimise in piedi e la trasformò in un gioiello, una meraviglia di calcio d’avanguardia. A metà campionato l’inconsistenza della rosa e gli infortuni in attacco lo obbligarono a schierare Totti da (falso) numero 9, fu l’inizio di un periodo di onnipotenza tecnica e tattica che ci ha regalato la Roma più bella di sempre. Non la migliore. Spalletti non ha vinto molto (ma nemmeno poco per gli standard romanisti): 2 coppe Italia e una Supercoppa. E’ arrivato due volte tra le prime 8 d’Europa (con alcune imprese epiche e almeno una disfatta disastrosa). Gli sono mancati 45 minuti per uno scudetto strameritato nel 2008, in un’epoca senza Var né pudori arbitrali, poi Ibrahimovic uscì dalla panchina e vinse ancora l’Inter. Anche nel suo secondo mandato la Roma era fortissima, senza essere ma la più forte. Mancava qualcosa, c’era sempre qualcuno più grande di noi.
A San Pietroburgo e all’Inter ha fatto il suo: stavolta nessun dramma e nessun miracolo, ma non ha mai sbagliato una stagione. L’uomo è generoso, permaloso, passionale, emotivamente instabile: trattatelo bene, lasciatevi convincere, non vi farà annoiare.
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