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«La Superlega? Non sopravvalutate i grandi club, il management del calcio è miope»

Un esperto di finanza al Napolista: «La Superlega nasce adesso così i club indebitati potranno farsi approvare i bilanci. Attenti, bisogna vedere cosa accadrà nel lungo periodo»

«La Superlega? Non sopravvalutate i grandi club, il management del calcio è miope»

«Non mi sembra una mossa che possa avere futuro. La capirei se fosse una tattica per alzare il livello della trattativa, una sorta di arma di ricatto. Altrimenti, sembra destinata a sgonfiarsi. Mi pare che i fondatori della Superlega stiano dimenticando che il calcio è una tipica economia di rete di cui, peraltro, è la Fifa a detenere le chiavi».

È un momento caldo per il calcio. La creazione della Superlega, la spaccatura con Uefa e Fifa, la deriva dei continenti pallonari. Ne abbiamo parlato con un esperto di finanza estera, appassionato di calcio ma da esterno. Fa tutt’altro nella vita. E per questo preferisce non comparire (lo chiameremo Gordon Gekko), altrimenti potrebbe sembrare un atto di presunzione. Dedica al Napolista le sue osservazioni.

«La Superlega mi sembra una mossa azzardata. Il calcio è un’industria basata sul talento. E alla base del talento c’è una catena di produzione, di approvvigionamento. È un’economia interdipendente. Le grandi squadre vivono del lavoro di quelle più piccole. Non sono autosufficienti. Non puoi stare con un piede dentro e uno fuori dal sistema economico».

«La Fifa ha regolato il calcio in modo che ci sia un trend di distribuzione del valore. Ad esempio quando un calciatore viene acquistato da un altro Paese, il 5% va a quelle squadre che lo hanno allevato, che hanno coltivato quel talento. E recentemente si è discusso di aumentare la percentuale dal 5 al 7%. Ed è giusto. L’istituzione, in questo caso la Fifa, deve guardare al bene complessivo, deve avere una visione strategica del comparto. La mossa dei club ha senso nel breve. Se asciughi quelli che stanno sotto di te, che senso ha? Mi sembra che la strategia sia asfittica».

Spiega un sistema che probabilmente non tutti conoscono. «Non è che uno si sveglia e acquista i calciatori. Le transazioni dei calciatori avvengono su una piattaforma che è gestita dalla Fifa: transfer matching system. Tms. La Fifa potrebbe escludere i club da questo sistema , impedire loro di acquistare i calciatori come si è sempre fatto. E potrebbe farlo. Proprio recentemente la Fifa ha vinto una lunga battaglia legale con Fondo Doyan sul ban alle Tpo. Ossia il divieto di partecipazione all’acquisto di giocatori da parte di chi non è iscritto alla Fifa. Il Fondo Doyan ha perso tutti i ricorsi, finanche quello alla Corte di Strasburgo che ha sì ammesso l’impossibilità di regolare il mercato finanziario ma ha riconosciuto alla Fifa di poter stabilire chi accedere e chi no alla piattaforma. È la Fifa che detiene le chiavi».

La domanda quindi è: i top club dove acquisteranno i calciatori? «La Fifa detiene il 99% dei calciatori. Poi c’è l’1% che è in mano ai più ricchi. Sono seimila le squadre iscritte alla Fifa, 125mila gli iscritti. Se la Fifa chiude il rubinetto, bisogna vedere come va a finire».

«Sono in pochi a conoscere realmente l’economia del calcio. In più, non dimentichiamo che si tratta di club spesso indebitati, il cui debito è cresciuto con la pandemia. E come reagisci a questo indebitamento? Non ristrutturando l’industria ma con una mossa che nel breve mi garantirebbe liquidità. Sapete perché questa mossa è stata fatta adesso? Perché a giugno si presentano i bilanci. E Agnelli potrà dire ai soci: “è vero, veniamo da anni di grave perdite, ma guardate il futuro che abbiamo davanti a noi, è un futuro radioso e soprattutto ricco. Poi, bisogna vedere quanto respiro abbia questa operazione. Che succederà tra tre anni, quando i top club vorranno acquistare nuovi talenti? Dove li prenderanno?».

«A una crisi come quella che sta vivendo il calcio, soprattutto in tempo di pandemia, si reagisce con una risposta sistemica. Dovresti aumentare la competitività invece di ridurla. Anche per combattere la disaffezione dei più giovani, annoso problema del calcio. Quest’anno il fatturato dell’industria dei videogame ha superato il dato aggregato di musica e cinema. Questi sono dati molto rilevanti, fondamentali, per chi fa il nostro lavoro. Chi investe, vuole che l’industria sia competitiva con le altre e produca molto prodotto ad alta marginalità. Staccare un pezzo, ossia la Superlega, invece riduce competitività al resto porta disaffezione che nel medio lungo periodo penalizza anche i club protagonisti della scissione.

«Faccio un altro esempio: nel lungo periodo, club anche di Serie A che rimarrebbero fuori dalla Superlega, si deprimerebbero, si asciugherebbero, non produrrebbero più i talenti. Il calcio, ripeto, è una catena che si basa sull’approvvigionamento del talento. A lungo andare avrai un decadimento naturale della qualità del prodotto e quindi della performance sportiva che devi alimentare col talento. Mi sembra una decisione presa su un set di informazioni che non sono corrette. È una decisione che si basa sull’idea errata che quei club costituiscano un’economia indipendente, che siano autosufficienti. Non è così. È l’esatto contrario: il calcio è un’economia eccessivamente interdipendente. Una delle verità è che nel calcio non c’è poi questa approfondita conoscenza manageriale. C’è una sopravvalutazione di queste persone. Se fossero state così abili, non si sarebbero trovate con aziende indebitate e sull’orlo del fallimento. Parliamo di persone che hanno sottostimato le previsioni di deficit del calcio pandemico, talvolta confondono l’aspetto economico con quello finanziario».

Fa l’esempio del Manchester City. «Il City ha creato nel mondo una mega-cantera. Lo ha spiegato molto bene nel suo libro l’amministratore delegato Ferran Soriano. Hanno acquistato 12 club nel mondo. Guadagnano producendo talento. Gestiscono e formano tantissimi minorenni. E poi li rivendono ad altre squadre di calcio. È questo il sistema alla base del City, un sistema interconnesso. Questo è il Manchester City, è un’industria del talento. Non guadagnano certo con i trofei e i campionati. Tant’è vero che quella linea è da loro definita business entertainment».

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