ilNapolista

L’addio sottotraccia del Papu è il trionfo aziendale dell’Atalanta

Una lezione gestionale che vale per tutto il calcio. Nessun fantasista di Frattamaggiore è stato maltrattato durante la produzione di questo articolo

L’addio sottotraccia del Papu è il trionfo aziendale dell’Atalanta

Nel premettere che nessun fantasista di Frattamaggiore è stato maltrattato durante la produzione di questo articolo sottintendiamo che la storia del Papu Gomez e del suo addio all’Atalanta può essere usata a piacimento, da chiunque, in qualsiasi contesto aziendale. Vale come insegnamento per chi vorrà trarne una morale. Nel caso persino banalotta: il calcio è uno sport di squadra, e il singolo – a meno di clamorose eccezioni che tutti conosciamo – vale quel che vale, ovvero un undicesimo quando va bene. In campo, e fuori. Il caso Gomez-Atalanta è una lezione di gestione dei poteri, dei rapporti, di economia aziendale spicciola.

Il Papu, dunque. Fino a tre mesi fa il fuoriclasse per acclamazione di una squadra molto acclamata, all’estero persino più che in Italia. L’uomo in più, il perno della fantasia offensiva dell’Atalanta “dei miracoli”. Il riassunto per ruolo e modalità espressive di quella retorica un po’ fighetta. Per ridurre all’osso una cronaca di cui tutti siamo a conoscenza: è bastato un battibecco su una sostituzione, trasceso poi in una sfida “tattica”, con l’allenatore per chiudere in un battibaleno una vicenda che aveva preso i toni lirici della grande storia sportiva. Sei anni, 252 presenze e 59 gol divelti da un “no”: “no, non mi sposto più a destra”. “Allora ti cambio, esci”. Gomez è uscito contro il Midtjylland il 2 dicembre e non è tornato più. L’hanno visto timbrare il cartellino solo per un’altra uscita Champions, a scanso di equivoci, per portare a casa la qualificazione, poi più nulla. Fuori rosa, senza nemmeno farne chissà che mistero. La società ci ha messo faccia e interviste alla bisogna, ha appoggiato il tecnico e scaricato il giocatore. Punto.

Il fuoriclasse locale è stato ridimensionato fino al decollo con aereo privato per Siviglia. E’ uscito dal suo garage di Bergamo con poche anime e un paio di microfoni tesi a salutarlo, ed è volato via. Ha detto “voglio bene a tutti, pure a Gasperini”.

Una ricomposizione da manuale di quello che altrove sarebbe sfumato in melodramma. Dal 2 dicembre ad oggi l’Atalanta ha fatto né più né meno (anzi, forse, più) quel che faceva con Gomez in campo. Ha vinto spesso, dando spettacolo. Ha battuto il Milan, capolista, 3-0. Dominando al limite dell’imbarazzo. Con una facilità d’esecuzione pari alla tenuta del principio politico: Gomez è un singolo, l’Atalanta è una squadra, il calcio è un gioco di squadra.

Questa è una lettura degli eventi piuttosto elementare. Che noi rileviamo in contrapposizione – evidentemente – a ciò che a Napoli in passato abbiamo tradotto in farsa prima e tragedia poi. Ma in una società sana, in un contesto meno traballante, le cose filano via così. Con l’applicazione di una dose minima di diplomazia, ma senza sperperi d’energie: una squadra di calcio è un’associazione verticistica con ruoli definiti e potere piramidale. Pur essendo “il Papu” resti un giocatore, come Freuler. E chi ti paga, e chi ti manda in campo prendendosene la responsabilità tecnica, ti è superiore. Ai primi sintomi di ribellione non c’è placebo: c’è la medicazione. E’ una lezione da tenere appuntati, per la revisione del passato. E, hai visto mai, per il futuro prossimo.

ilnapolista © riproduzione riservata