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Il gol fallito da Insigne fotografa il guaio epocale del Napoli: la sopravvalutazione di sé

Si confonde lo sport con la bellezza. Ci si attribuisce capacità che non si hanno. Vale anche per Adl e per Giuntoli. E certifica che si è rimasti orfano del sarrismo

Il gol fallito da Insigne fotografa il guaio epocale del Napoli: la sopravvalutazione di sé

Il guaio epocale in cui ci siamo cacciati noi tifosi del Napoli lo si può trarre simbolicamente e praticamente dall’azione del primo gol sbagliato da Insigne.

È tutto lì dentro.

Lozano mette in mezzo all’area l’assist perfetto: teso, con i giri giusti per la corsa del suo compagno.

Il quale arriva sul pallone e fa, anzi non fa, questo:

– invece di mettere il piatto teso, rigido ed immobile ad attendere il pallone, perché questo gli sbatta contro e vada a direzionarsi sul primo palo (si badi bene, parlo di lasciare il piede in questo modo così da creare una semplice sponda, e più precisamente un “muro” contro cui far sbattere la palla per direzionarla sul palo più vicino e scoperto, e non di calciare caricando il tiro – altrimenti fai la fine di Elmas nel secondo tempo);

– si lascia scivolare il pallone sempre sul destro con l’obiettivo di fare la giocata più difficile, quella cioè di cercare di accarezzarlo per mandarlo sul secondo palo e, contestualmente, mandare a vuoto il portiere.

Ma la palla va miserabilmente e lentamente fuori, a due metri dal palo cercato da Insigne.

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Se si riguarda bene l’azione, chi ha giocato a calcio a livelli che una simile comprensione facilitano, ben può accorgersi che il disastro calcistico e sportivo è tutto lì – a testimoniare un declino non più evitabile.

Invece di cercare la giocata più facile ed a portata di mano (ed a portata  di capacità – mi si consenta) per arrivare al gol, si cerca la giocata più difficile.

Come accade da anni.

Senza che nessuno sembri essersi reso conto di questo strutturale difetto di approccio alla competizione sportiva professionistica e dei disastri che sta producendo.

Perché (mi sono chiesto più e più volte)?

Perché in ogni partita il Napoli sembra prendersi gioco del tempo, ed in particolare del fatto che chi deve vincere una partita non deve aspettarne altro se gli è data la possibilità di poterla chiudere subito?

Cosa porta una squadra, ed i suoi giocatori più rappresentativi, a sprecare tutto ciò che viene costruito, come se le partite avessero una durata così indefinita ed indeterminata da poterti prima o poi dare l’occasione per correre ai ripari rispetto agli errori fatti in precedenza?

Una risposta io ce l’ho, ed è una risposta che impone una riflessione che invito tutti a fare.

Accade questo perché si è ormai arrivati a confondere quello che significa la partita, ed anzi lo sport professionistico per l’atleta, gli si è attribuito un significato improprio, ad uso del più inutile vezzo narcisistico.

Per Insigne, così come per molti giocatori del Napoli “reduci” di Sarri, la partita non è più ciò da cui devi uscire vittorioso, ma ciò dentro cui devi cercare l’auto-sublimazione individuale guidato dal più classico disturbo estetico-compulsivo.

Qui sta il primo cortocircuito.

Ma il bello è che si fa ciò (si cerca ciò) senza averne i mezzi tecnici.

E qui sta il secondo cortocircuito, che ne genera un ulteriore.

Non solo ci si sopravvaluta attribuendosi capacità tecniche che non si hanno: la giocata che prova Insigne, Insigne non ce l’ha nelle corde, molto semplicemente. È una giocata che ho visto fare a Careca, a Van Nilsterooy, a Romario, ma Insigne non ce l’ha, non ne ha i mezzi, come del resto non ha quelli per cui pretendere di riuscire in ogni tiro a giro che prova e che, non a caso, gli è riuscito (contati da me) solo 7 volte su almeno 100 tentativi che gli ho visto fare.

C’è di più.

A me sembra che qui tutti si stiano sopravvalutando al punto da attribuirsi, più che mezzi che non si hanno, addirittura funzioni che non sono proprie.

Ripartendo da Insigne, che ogni volta sembra non cercare il gol, ma piuttosto un modo di farlo per passare alla storia, per imprimere un (suo) marchio di fabbrica alla competizione che tuttavia non c’è (e non ha nelle corde), pensando che il destino gli abbia riservato percorsi che tuttavia il destino nemmeno ha lontanamente immaginato per lui.

Passando da Giuntoli, che pensa di potersi attribuire il ruolo di chi può determinare il nostro futuro non solo, per esempio, comprando Lobotka per decine di milioni di euro, ma anche di ritenendolo un grande giocatore (e gli esempi sono tanti, a meno di non voler ritenere Regini, Verdi, Politano, Demme, Bakayoko o Petagna in grado di poterci far competere con le grandi d’Italia e d’Europa).

Come se essere toscano di per sé basti ad avere il talento da scout che aveva Moggi.

Arrivando a De Laurentiis, a cui una decina di bilanci in ordine hanno fatto ritenere di potersi assumere la stessa funzione del Jep Gambardella noto a tutti; quella cioè, di volerci a tutti i costi rovinare la festa, solo perché il “padrone” è lui.

Come se i bilanci in ordine fossero un valore di “bello” in sé,  in un’economia invece dominata dal debito ed in cui tutti vivono e vincono a debito.

Con il paradosso di chi, mentre gli altri appunto vincono a debito, recita la poesia della società in ordine (perdente) come uno scolaretto con la divisa da terza elementare addosso reciterebbe la poesia di fine anno.

La verità, insomma, al netto dei pessimi giudizi che chi scrive ha della squadra (male assortita e piena di giocatori non forti), è che Napoli vive ancora in una “dimensione sarriana” (anzi, “sarrista”) – avendone però tratto equivoci enormi ed avendone male interpretato il vero credo calcistico.

Una dimensione che aveva illuso tutti quanti (i suoi giocatori, il suo presidente, il suo direttore sportivo) di essere più forti e più capaci di quello che sono.

Una dimensione che una volta introiettata altro non ha fatto e non fa se non continuare a cercare di produrre una spasmodica auto-sublimazione individuale, una spasmodica ricerca del presunto “bello”  invece di rendersi conto, per restare al profilo strettamente calcistico, che le partite non vanno vinte, ma vanno ammazzate, che la porta non va cercata, ma va sfondata.

Che la competizione sportiva ti impone i suoi tempi per portarla a tuo vantaggio, e non ti concede quelli che vorresti prenderti per affermate il tuo personale ed individuale modo di celebrarti.

Che il collettivo, e cioè le sorti di tutti noi, non possono essere considerate un semplice ed egoistico  strumento di ricerca della propria auto-celebrazione, di personale passaggio alla storia, di personale declinazione di un (presunto) marchio di fabbrica.

Questi non sono obiettivi sportivi, ma personali, e chi vive perseguendoli commette due imperdonabili errori; da un lato quello di sovrapporre, in nome della presunta perfezione del gesto tecnico/calcistico od imprenditoriale, la propria affermazione su quella del contesto strutturale di cui fa parte, e dall’altro lato di nascondersi che l’auto-sopravvalutazione, da cui si genera la voglia di auto-affermazione a tutti i costi, è un disturbo della personalità – e come tale va trattato.

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Ed allora, mi sembrano rilevanti due conclusioni.

La prima è che, nolenti o volenti, purtroppo tutto ancora depone perché si possa tranquillamente definire questo gruppo di giocatori e l’ambiente tutto orfani del “sarrismo”, sebbene mal colto nel rapporto tra bellezza e risultati.

Nel senso che qui c’è gente che ancora non pensa che la prima ben può essere strumento per i secondi, ritenendola semplicemente strumento della propria auto-affermazione.

In un’estasi che ormai sa tanto di auto-commiserazione del passato.

La seconda è che basterebbe un allenatore che faccia capire ai suoi giocatori che la ricerca del bello (in sé considerato), così come il passaggio alla storia, bisogna lasciarli ai pochi che possono permetterselo.

E che, in sostanza, si perdono le partite non solo perché si è incapaci di fare gol, ma perché si ritiene di poter essere tutti in grado di arrivarci come ci arrivano i fenomeni, senza tuttavia esserlo.

Ecco, basterebbe questo ad un allenatore che voglia davvero essere considerato un “duro”: dire in faccia al proprio giocatore che se poteva permettersi Batistuta di mirare alla faccia del portiere quando ci arrivava a tu per tu, Insigne od Elmas devono farlo d’obbligo.

Qui si celebrano attivi di bilancio, si cercano gol che rappresentino marchi di fabbrica, si continua a cercare il “bello” dell’impresa economica e calcistica, e non ci si accorge di essere (diventati) dei semplici comprimari e spettatori delle gesta altrui, che la rete la sfondano ed i trofei li alzano con i bilanci in rosso, oppure senza giocate difficili che non siano destinate a quei 4/5 al mondo che possono permetterselo.

E che noi non abbiamo, perché se li avessimo staremmo qui a parlare di altro.

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