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Quando penso agli ammalati di Covid, penso soprattutto a questo: il dolore di restare da soli

Chi conosce gli ospedali sa che per un malato, il momento più bello è quando arrivano in visita i parenti, e siedono intorno al letto

Quando penso agli ammalati di Covid, penso soprattutto a questo: il dolore di restare da soli

Ogni giorno contiamo i numeri e dimentichiamo che sono persone. Duemila, tremila contagiati. Cento, duecento morti. Ci rammarichiamo se il numero sale. Esultiamo se scende. E dimentichiamo che dietro quelle cifre ci sono giorni di dolore e di silenzio, di tormento e di sofferenza. L’uomo ha sempre dovuto fare i conti con la malattia e con la morte. Non è una invenzione di questo coronavirus. Conosciamo lo strazio del dolore fisico, l’agonia del corpo, lo strappo dell’addio alle persone care. Ma ammalarsi, o peggio ancora, morire di Covid-19 porta con sé un dolore in più, una malattia nella malattia. Bisogna affrontare tutto da soli.

Ormai il virus ci circonda. Ogni mattina è un bollettino di amici che si ammalano. C’è chi sta bene, a casa; c’è chi sta peggio. Ma in ognuno di quei racconti c’è un dramma sottile, che chi conosce la malattia sa essere un terribile amplificatore di ogni dolore: la solitudine.

Ormai è un termine che abbiamo introdotto agevolmente nel nostro linguaggio: quarantena, isolamento fiduciario. Mi sono isolato in casa. Osservo l’isolamento. Sono frasi ricorrenti, con nuclei familiari che a volte si devono disputare i pochi spazi di case condivise. Ma l’isolamento diventa la parola chiave di questa malattia, come di tutte quelle infettive, con l’aggravante dell’alta contagiosità.

Cos’è una malattia da isolati? È una traversata nel deserto. Quando penso agli ammalati di Covid penso soprattutto a questo: il dolore di restare da soli. Non poter condividere la paura, il racconto dei sintomi, un segnale di speranza. Perfino il consulto di medici e infermieri avviene attraverso le bardature, solo gli occhi a dare un segnale. Chi conosce gli ospedali sa che per un malato, il momento più bello è quando arrivano in visita i parenti, e siedono intorno al letto, portano qualcosa da mangiare, chiacchierano: un respiro di vita. E poi la speranza di tornare a casa, costruita giorno per giorno. Con questo virus, invece, la malattia è un lungo scontro con se stessi, con le proprie inquietudini, con i timori, con l’abisso delle assenze. E morire poi, così, senza una mano, senza una preghiera, senza una benedizione, senza una parola.

C’è qualcosa di peggio che morire, ed è morire da soli.

Tutto questo dolore ce lo dobbiamo ricordare, e voglio ricordarlo, perché è dallo scenario più inquietante che dobbiamo trovare la forza di reagire e organizzare la nostra battaglia. La politica sembra inerme, le istituzioni si agitano ma non riescono a incidere. Alla fine, la parola passa a noi, ai nostri comportamenti individuali. Restare a casa, innanzitutto. Distanziarsi dagli altri. Uscire solo se è indispensabile e usare la mascherina. Se pensiamo un po’ di più a quanto è brutto ammalarsi restando da soli, forse riusciamo a capire quanto è necessario essere responsabili. Affinché quei numeri siano persone.

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