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Nadal: «Nel 2007 a Wimbledon ho pianto con Federer negli spogliatoi per un’ora e mezza»

Al CorSera: «Il dolore va affrontato trasformando la fragilità del corpo in forza morale. Dobbiamo attrezzarci per resistere. Perché non c’è altra soluzione che resistere»

Nadal: «Nel 2007 a Wimbledon ho pianto con Federer negli spogliatoi per un’ora e mezza»

Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Rafa Nadal. Racconta che ogni volta che va in campo lo fa senza certezza di vittoria.

«Guardi che io ogni volta me la faccio sotto».

Non è paura di perdere, chiarisce.

«Paura di perdere, mai. Però penso sempre di poter perdere. Lo penso tutti i giorni, contro qualsiasi avversario. E questo mi aiuta moltissimo».

Gli viene chiesto qual è la sua più grande paura. Risponde:

«Ho paura della malattia. Ho paura per le persone cui voglio bene».

E questo vale anche per il Covid.

«Se mi infetto, posso infettare persone a rischio. Sono preoccupato per i miei genitori, per la mia famiglia. Per la mia comunità. È il momento più duro nella nostra vita. Per questo è il momento di lottare, per cose molto più importanti di una partita di tennis. Dobbiamo coltivare la fiducia».

Ed aggiunge che la crisi del Covid va affrontata con il rispetto.

«Verso noi stessi, verso i nostri cari, verso gli altri. E poi con la responsabilità. E la logica. Si muore per il virus; ma si può morire anche di fame. Il colpo all’economia è stato durissimo. Bisogna trovare l’equilibrio tra la salute e il lavoro, tra la protezione sanitaria e quella sociale. La sicurezza è fondamentale; ma lo sono anche la libertà e la dignità».

Da ragazzo era calciatore. Spiega perché ha scelto il tennis.

«Non è stata una scelta. Ero un buon calciatore; ma come tennista ero un po’ più speciale».

Tifoso del Real Madrid, racconta il rapporto che ha con Ronaldo.

«Amico è una parola molto forte per me. I miei amici sono i ragazzini di Manacor con cui sono cresciuto. Cristiano Ronaldo è un compañeros, un collega. L’ho incontrato più volte, lo stimo».

Su Federer:

«E’ uno dei più grandi uomini nella storia dello sport. Un altro compañeros. È stato il mio grande rivale; e questo ha giovato a entrambi, e un poco pure al tennis. Abbiamo diviso un tratto di vita. In alcune cose ci assomigliamo: teniamo alla tranquillità, alla famiglia. In altre siamo diversi. Lui è svizzero. Io sono latino. Abbiamo caratteri, culture, modi di vita differenti».

Sul suo rito pre partita, con i due sorsi d’acqua da due bottigliette e le righe da non calpestare:

«Non sono superstizioso; altrimenti cambierei rituale a ogni sconfitta. Non sono neanche schiavo della routine: la mia vita cambia di continuo, sempre in giro; e gareggiare è molto diverso dall’allenarsi. Quelli che lei chiama tic sono un modo di mettere ordine nella mia testa, per me che normalmente sono disordinatissimo. Sono la maniera per concentrarmi e zittire le voci di dentro. Per non ascoltare né la voce che mi dice che perderò, né quella, ancora più pericolosa, che mi dice che vincerò».

Racconta cosa fa negli spogliatoi.

«Faccio una doccia ghiacciata, ascolto la musica nelle cuffie e, sì, lego la bandana. Ma non mi sono mai permesso di intimidire un avversario».

Gli viene chiesto se va d’accordo con Berdych. Risponde che hanno un bel rapporto.

«Dicono pure che non vado d’accordo con Kyrgios, ma non è vero. Una volta gli dissi quel che avevo da dirgli, e finì lì. La verità è che coltivare inimicizie mi stanca».

E sui mancati applausi agli avversari quando mettono a segno bei colpi:

«Qualche volta lo faccio. Di rado. Ma non siamo lì per applaudirci. Quello spetta al pubblico».

Nadal racconta di quando, a 19 anni, subito dopo il trionfo nel primo Roland Garros, gli dissero che non avrebbe potuto più giocare per una malformazione al piede sinistro.

«Il dolore era tale che mi allenavo a colpire la pallina seduto su una sedia in mezzo al campo. Poi sono guarito, grazie a una soletta che cambiava la posizione del piede, ma mi infiammava le ginocchia…».

La pandemia va superata con una mentalità positiva, dice.

«Trasformando la fragilità del corpo in forza morale. Prima o poi le cose si metteranno a posto. Dobbiamo attrezzarci per resistere. Perché non c’è altra soluzione che resistere».

Racconta che nel 2007, dopo la sconfitta nella finale di Wimbledon, pianse con Federer negli spogliatoi.

«Disperatamente. Per un’ora e mezza. Perché a volte la disillusione è terribile; anche se è solo un incontro di tennis. Ho pianto di dolore quando, nella finale degli Australian Open con Wawrinka nel 2014, mi sono infortunato alla schiena dopo aver vinto il primo set. Ho perso, ma ho portato a termine l’incontro; perché non ci si ritira da una finale Slam».

Su un eventuale ritiro:

«Il tennis è un gioco della mente; non è matematica. Quando sarà il momento, lo saprò».

Dopo, si dedicherà ai bambini con la sua Fondazione, dice.

Gli viene chiesto se crede in Dio:

«Non lo so, e non me lo chiedo. Per me l’importante è comportarsi bene, aiutare chi ne ha bisogno. Credo nelle brave persone. Se poi Dio esiste, sarà meraviglioso».

E infine, spiega perché non getta mai la racchetta:

«Perché da piccolo mi hanno insegnato che non si fa. Sono io che sbaglio; non la racchetta».

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