Sul Giornale la storia del numero uno che Zoff definì «un artista della porta». Per salvarsi dalla miseria finì ad allenare la squadra di un villaggio tunisino. «In Italia rischiavo di morire di fame. Solo porte sbattute in faccia»

Sul Giornale, la storia di Giuseppe Moro, detto Bepi, il portiere “dannato”. Nato a Carbonera nel 1921, ebbe una carriera molto discussa a causa del suo carattere e dei difficili rapporti con allenatori e dirigenti. Fu accusato di vendere le partite ma non fu mai confermata l’accusa. Vestì anche le maglie di Torino, Roma, Fiorentina, Sampdoria e Verona. Morì nel 1974.
Dino Zoff lo definisce «un artista della porta, un vero e proprio mito». Le cronache degli anni ’50 lo restituiscono come un «portiere acrobatico con un talento speciale per le parate impossibili».
Ma la sua carriera fu macchiata da quell’accusa infamante: «uno propenso a vendersi le partite». Fu così che finì emarginato. Il Giornale scrive:
“Ci mette del suo a peggiorare la situazione: ha un carattere forte, roba che non piace ad allenatori e dirigenti. Commette errori. Li pagherà carissimo. Una «discesa agli inferi», fin sull’orlo del suicidio. Per salvarsi dalla miseria va ad allenare la squadra di un villaggio tunisino”.
Il 30 novembre 1965 Bepi si presenta alla redazione del Corriere dello Sport per confessarsi. L’allora direttore, Antonio Ghirelli, lo affida al giovane e brillante cronista Mario Pennacchia, che per giorni raccoglie lo sfogo di Moro. Ne vennero fuori dieci puntate seguite dai lettori come un romanzo d’appendice. Poi, quelle confessioni si trasformarono in un libro a cura di Massimo Raffaeli, “La vita disperata del portiere Moro”.
Il Giornale ricorda alcune delle sue confessioni.
«Una volta non avendo i soldi per il biglietto, entrai all’Olimpico (nella Roma aveva giocato dal ’53 al ’55) grazie alla complicità di un inserviente, ma vennero a cercarmi sugli spalti per cacciarmi fuori. Io che in azzurro avevo fermato Puskas nella bolgia di Budapest, io l’eroe dell’epica partita di Londra, ero diventato un ospite sgradito».
E ancora:
«In Italia rischiavo di morire di fame. Tutti si giravano dall’altra parte. Porte sbattute in faccia. Eppure io non chiedevo elemosine, ma solo un lavoro per tirare a campare con la mia famiglia».
Per il mondo del calcio, racconta il quotidiano, Bepi
“era diventato un appestato. Da scansare. Invisibile. Un fantasma di cui avere paura. Forse perché di cose da dire, Moro, ne aveva tante, troppe. Segreti imbarazzanti. Pericolosi”.
In tanti potevano essere rovinati da lui, se avesse parlato. Ecco perché gli seminarono attorno il vuoto.
Pennacchia racconta Moro così:
«Davanti a me vedevo un uomo vero. Schiacciato dalla solitudine, dall’ingratitudine umana. Parlava di cose mai dette prima, perché in Italia non aveva trovato ascolto da nessuna parte».
E il quotidiano racconta le tante pazzie commesse da Moro.
“Giocava nella Fiorentina. Arriva la Juventus. Lancio lungo: Moro esce chiamando la palla ma un difensore viola, tentando la rovesciata, serve involontariamente Boniperti che insacca a porta vuota. Dietro la porta un dirigente inveisce contro Bepi: «Ecco, questi sarebbero i campioni». Imprevedibile la reazione di Moro: su colpo di testa di un attaccante bianconero, afferra la palla ma, ripensando all’insulto appena ricevuto, la scaglia volontariamente in porta, urlando «Se non sono un campione è giusto che prenda gol»”.
Non fu l’unico episodio del genere.
Bepi morì a Porto Sant’Elpidio, in provincia di Fermo, il 28 gennaio 1974. Zoff racconta:
«L’avevo visto giocare poche volte e solo quando era alla fine, purtroppo, ho saputo della vita disperata di cui mi avrebbe poi parlato tante volte l’amico Mario Pennacchia. Così, quando seppi della morte di Moro, mandai a Treviso, in segno di stima e di riconoscenza, la mia maglia della Nazionale. Fu un gesto istintivo, da parte mia, perché nel gennaio ’74 quella era una maglia imbattuta da anni e Giuseppe Moro, che l’aveva onorata, era degno di indossarla come nessun altro».