A Repubblica: “Mi dispiace non aver potuto vivere i miei figli quando erano piccoli: non li ho visti crescere ogni giorno, questo è mancato anche a loro”
Oggi Adriano Panatta compie 70 anni. La Repubblica lo intervista. Si dice contento di aver reso il tennis popolare.
«Ai miei tempi il tennis era come un giardino insormontabile, un mondo molto chiuso. La classe media e la classe operaia mai pensavano di potervi accedere e far giocare a tennis i propri figli».
Racconta di essere rimasto quello che era vent’anni fa. Di aver conservato l’umiltà.
«Semplicemente non ho mai pensato di essere chissà chi. È bastato solo usare il cervello, sono sempre rimasto me stesso: quello che pensavo vent’anni fa lo penso anche adesso. Capisco che oggi basta vincere due partite e l’ultimo str**o va in televisione a pontificare. Ma non è mai stato il mio caso».
Il merito è stato dell’educazione ricevuta in famiglia e del suo carattere. Parla del padre Ascenzio.
«Penso sarebbe orgoglioso di me, di quello che ho fatto. Oggi che la gente si ricorda ancora di me. Se penso a come veniva al Foro Italico a vedermi: sempre in maniera molto tranquilla, mai a vantarsi del figlio campione: lui si sedeva nella tribuna giocatori e, con grande discrezione, assisteva ai miei match. Con me non è che parlasse molto, tra noi c’era un gioco di sguardi e gliene bastava uno per farsi capire, per lanciarmi un messaggio».
Mai un litigio con lui.
«Mio padre non ha mai alzato la voce con me. Mai. Neppure un litigio forte: era un uomo molto buono. Ma in fondo io, per anni figlio unico, ero uno tranquillo. Un bimbo che giocava da solo».
Parla del tennis di oggi. Non è che non gli piace, dice:
«Non è questo. In fondo il tennis è cambiato per forza di cose: è, come definirlo, esasperato? Pieno di divismo. Guardate i giocatori, si muovono come stessero facendo chissà cosa».
Si racconta come un uomo curioso, a cui non è mai fregato «niente di essere un campione».
«Lo esprimevo anche nel tennis. Ma perché c’è un motivo di fondo: io mi annoio facilmente, quindi ho bisogno di cose nuove, non sono un metodico. Ma capisco che ognuno ha il proprio carattere: io ho sempre voglia di mettermi in gioco, errori inclusi, come capita a tutti. È normale, no?».
La sua soddisfazione più grande, a 70 anni, è avere figli e nipoti bellissimi, dice. Essere nonno
«vuol dire accettare il corso della vita e l’invecchiamento e godersi i nipoti, viziarli. Confesso che mi dispiace non aver potuto vivere l’età dei miei figli, quando erano piccoli: non li ho visti crescere ogni giorno, questo è mancato anche a loro. Ne sono dispiaciuto».