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22 aprile due anni fa: il gol di Koulibaly. Mi manca il Napoli, mi manca il rito del calcio

Quella sera accarezzammo un sogno. Sembra un’altra vita, oggi il ricordo è un lusso. Mi manca il vicino di posto allo stadio, anche a un metro e mezzo se necessario

22 aprile due anni fa: il gol di Koulibaly. Mi manca il Napoli, mi manca il rito del calcio
Il gol di Koulibaly / Matteo Ciambelli

Ventidue aprile 2018. È domenica. Napoli e i napoletani di cuore sono immersi in un silenzio naturale, non imposto come certi silenzi di questi giorni, non ammorbato. Un silenzio carico di attesa, tensione, speranza, anche paura. Intorno alle ventidue e trenta, nelle case dei napoletani di cuore e di fede, passa l’immagine di un atleta nero e maestoso, con la maglia azzurra, col numero ventisei, che si arrampica in cielo a inseguire un sogno a forma di pallone. Lo raggiunge e, spinto dagli sguardi d’amore dei napoletani di cuore e fede, lo spedisce in paradiso.

Succedeva giusto due anni fa e, per mille motivi, sembrano venti.

Ricordo pochissimo, personalmente, di quello che accadde dopo le ventidue e trenta di quella domenica. Solo che restai impietrito, zitto, a fissare quel sogno che prendeva forma – un pallone – e colore: l’azzurro. Aspettai tre minuti eterni, in apnea. Urlai solo dopo, quando qualcuno mi disse che avrei potuto riaprire gli occhi, senza smettere di sognare. E vidi cose bellissime, in tv: soprattutto la faccia di un tifoso sconosciuto, capace di piangere e ridere insieme, non me la dimentico più.

Due anni fa, ma sembra un’altra vita.

So bene, poi, come andò a finire, e non posso dire che non me ne importi: sarei un bugiardo. Ma quella notte di aprile, soprattutto nel ricordo, ha riempito anche i buchi, anzi no le voragini dello sconforto che sarebbe venuto poi. Per inciso: sapere che uno degli artefici di quel sogno, l’allenatore della squadra che vinse la partita, sia assurto oggi al ruolo di robottino Fiat e discetti vanamente di amore e di odio, non fa neppure pena, ma rende il ricordo nostro più caro ed esclusivo. Però questo, scusate, non c’entra.

Oggi, nel deserto popolato soprattutto dall’emergenza, il ricordo non è solo un lusso, ma un soffio di tenerezza che fa persino bene. E poco importa che altri robottini – uso immodestamente un termine caro al maestro Pacileo – in bianco e nero sorridano al pensiero che di rose non colte si nutra gozzanianamente il nostro amore: nella loro ingordigia sfrontata, molti ignorano quanto sappia essere prezioso un abbraccio inseguito e solo sfiorato. 

Quella notte, appunto, sfiorammo un sogno. Non potemmo toccarlo, pur desiderandolo ed avendolo tanto vicino da sentirne chiaramente il fascino. Strano a ripensarci adesso, mentre aspettiamo di abbracciare la normalità, diventata nel frattempo proprio un sogno. Ma nel desiderio, come insegna il ricordo di quella notte, può non esserci tormento. 

Mi manca, però, quel gigante che si alza fino in cielo a spingere il sogno in paradiso. In fondo, sto aspettando che torni, e non mi importa se stavolta potrà portare un altro nome e un altro numero di maglia, purché mi appaia azzurro. Vorrei solo che succedesse in fretta. 

Mi manca, nel silenzio che imperversa, il mio Napoli, e non vale a lenire l’assenza il ricorso assiduo e quasi terapeutico a video d’annata per rivivere fasti antichi e recenti. Quello, semmai, serve ad accrescere il desiderio. Un po’ come accade quando si ascolta un concerto in streaming: l’orecchio trova ristoro momentaneo, la mente e il cuore avvertono implacabile la differenza e inducono – almeno questo – a non rassegnarsi alla distanza. 

Mi manca, e non sembri infantile, ciò che resta – al netto di anticipi, posticipi e lunch match – del sano rito laico del calcio, del nostro calcio, quello nato di domenica alle tre e mantenuto in vita, nonostante tutto, anche di lunedì alle nove. Quello di Sivori e Juliano, diventato poi di Insigne e Mertens, con lo stesso amore. Quello della “visiera p’ ‘o sole” e del Borghetti, quello del vicino di posto con cui parlare complici, anche ad un metro e mezzo di distanza, se necessario. Quello della squadra dell’anima per cui emozionarsi, non solo nelle notti di aprile a Torino, ma ogni volta che il cuore lo voglia. Ossia, sempre. 

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