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Il figlio di Anastasi: «Che vergogna dimenticarsi di mio padre negli stadi»

Intervista a Repubblica: «E’ stato coraggioso a scegliere la sedazione, lo ha fatto per non farci soffrire. La Sla è una brutta bestia, non si capisce come venga né come curarla»

Il figlio di Anastasi: «Che vergogna dimenticarsi di mio padre negli stadi»

Venerdì scorso Pietro Anastasi si è spento dopo una lunga malattia. Al cancro si era aggiunta la Sla e così l’ex campione di Inter e Juventus ha scelto la sedazione assistita. Era stato un totem del calcio, eppure sono stati solo due i campi in cui è stato ricordato con un minuto di silenzio e il lutto al braccio.

Una decisione, anzi, una mancanza, che ha inferto un ulteriore dolore alla sua famiglia. Il figlio Gianluca lo dice con molta chiarezza in un’intervista pubblicata oggi da Repubblica.

«Mio padre ha smesso di soffrire, ma che vergogna dimenticarsi di lui».

Gianluca racconta il padre, sempre affettuoso con la sua famiglia

«Il nostro campione, l’eroe della nostra famiglia. Anche io giocavo e avere un papà così importante ci metteva un po’ in soggezione, ma non ci ha mai fatto pressioni».

Anastasi è solo l’ultimo caduto sotto i colpi della Sla.

«Sono tre anni che ci penso. Ma questa malattia non si capisce come venga, né come curarla. Quando abbiamo capito che era quella brutta bestia ci siamo messi il cuore in pace. A lui lo abbiamo tenuto nascosto fino a sei mesi fa».

Saperlo lo ha ulteriormente demoralizzato, da qui la scelta della sedazione profonda.

«Parlando con mia madre aveva sempre detto che avrebbe fatto questa scelta e quando i medici hanno dato il via libera ce lo ha comunicato. È stato un duro colpo anche per noi. L’ha fatto per lui ma anche per noi, come segno d’amore verso la nostra famiglia. Vedeva che mia madre soffriva troppo. Avrei fatto la stessa cosa. Però è stato molto coraggioso perché è facile dirlo, ma poi per decidersi serve qualcosa in più».

Gianluca dice di non essere stato sorpreso dall’affetto di quanti hanno voluto ricordare suo padre recandosi al suo funerale.

«Quando andavamo a Torino per vedere la Juventus, dopo quarant’anni, i tifosi si fermavano ancora a chiedergli una foto o un autografo. C’eravamo abituati sin da piccoli, ma ogni volta per noi era una grande emozione».

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