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Perché fischiamo la nostra squadra? Il Guardian: “Perché ci sentiamo clienti, e ci piace lamentarci”

In una lunga analisi del fenomeno il quotidiano inglese parla di “frustrazione” di “sospensione dei comportamenti civili”. Un ragionamento per il calcio inglese ma va bene anche per noi

Perché fischiamo la nostra squadra? Il Guardian: “Perché ci sentiamo clienti, e ci piace lamentarci”
La sciarpata dei tifosi del Nizza (Photo Matteo Ciambelli)

In Inghilterra lo chiamano “booing”. Che non sono i buu, come li intendiamo noi, ritmati e razzisti. Sono i “boo”, i fischi di disapprovazione. La protesta del pubblico perché qualcosa non va, non gli piace.

“Cosa sperano di ottenere le persone quando fischiano la propria squadra?”, si chiede il Guardian in un approfondimento di Paul MacInnes. “È una domanda che arriva al cuore del malessere del moderno sostenitore”, e la risposta – le risposte – hanno a che fare sì con la frustrazione delle proprie aspettative di persona che paga per guardare una partita, ma anche con “qualcosa di più nebuloso e contraddittorio”.

La spiegazione più banale – scrive il Guardian – è che fischiando speri di migliorare le prestazioni dei giocatori per cui stai facendo il tifo. Gli stai dicendo che la loro performance è inaccettabile, e li vuoi convincere a fare meglio. Funziona? “Non è chiaro”, dice la psicologa sportiva Josephine Perry. “Dipende dalle caratteristiche personali. Alcuni atleti potrebbero usare i i fischi come carburante per accendersi. Per altri, magari quelli preoccupati per il posto in squadra o quelli a cui piace compiacere la gente, sentire il rimprovero della folla potrebbe peggiorare le cose”. Insomma, se vuoi migliorare le prestazioni, il fischio non è molto efficace.

E poi è “indiscriminato”, porta alla confusione confondere: se pure il messaggio arrivasse ai giocatori o all’allenatore cos’è che deve cambiare? Qualcosa di specifico? Tutto?

Un’altra verità, che ci riguarda tutti da vicino, è che i tifosi hanno pagato molti soldi per guardare una partita, e non staranno zitti se si sentono traditi: è “la natura contemporanea del calcio”, i tifosi “si sentono sempre meno come una parte viva di uno sforzo collettivo e più come clienti. E i clienti si lamentano quando non ottengono ciò che vogliono”.

Ma non basta. Perché la domanda che si pone l’articolo è “Cosa vogliono le persone?”. Ogni tifoso ha una sua “linea rossa” superata la quale non ci sta più e protesta. Che può essere “la percezione dello sforzo, o della sua mancanza”. Ma si innesca un ragionamento più complesso: “i fischi non riguardano il tentativo di raggiungere uno scopo specifico, ma più il rilascio di qualcosa di personale”. E spesso ci si trova di fronte al classico “effetto contagio”, “quello per cui la gente beve perché quelli intorno bevono”.

Secondo il filosofo Julian Baggini, “i campi di calcio tirano fuori le esasperazioni, indipendentemente da ciò che la persona accanto a te sta facendo”, quindi ogni fischio, per quanto stimolato da un contagio è anche molto personale. “È come un carnevale”, dice. “Tutte le culture hanno luoghi o momenti in sospendono le regole. E entrare in uno stadio di calcio ti dà una specie di licenza per esprimere un’emozione grezza non filtrata, in una sospensione di comportamenti decenti. Le persone normali iniziano a chiamare altre persone nei modi più orribili. È una delle poche occasioni sociali in cui è accettabile dire che odi qualcuno”.

Non tutti i comportamenti trasgressivi sono così odiosi, e certamente non lo è un fischio, ma Baggini sostiene che potrebbe avere cause sociali: “Trovo sorprendente quanto spesso nelle interviste con i tifosi ci si giustifichi brutalmente con “vogliamo vincere”.

E’ un po’ il nostro “siamo il Napoli, dobbiamo vincere”. Dice Baggini: “I tifosi sostengono squadre che vincono niente da anni. Ci sono 20 squadre in Premier League e 19 non ci riusciranno a vincere il campionato. Ma sembra esserci una discrepanza tra le emozioni che le persone provano e la realtà”.

“C’è una diffusa convinzione che se credi in te stesso avrai successo. Il rovescio della medaglia è che se non succede, allora è colpa tua. È un’idea così diffusa di questi tempi… c’è la tendenza a pensare che la mancanza di successo sia biasimevole”

“Noi, come società – chiude il pezzo – non siamo solo stati trasformati in consumatori, ma abbiamo attivamente abbracciato questo cambiamento. Ci piace trovare cose di cui lamentarci. Ma sfogare le frustrazioni non rende nessuno più felice. Indipendentemente dalle cause: fischiare la tua squadra non funziona”.

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