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Ponte Morandi: così fu modificato il documento che attestava il “rischio crollo”

È stato poi trasformato in «rischio perdita stabilità». Intanto le polizze sul viadotto erano aumentate notevolmente. Il viadotto andava chiuso e invece non fu limitata neppure la circolazione

Ponte Morandi: così fu modificato il documento che attestava il “rischio crollo”

Il Ponte Morandi era a rischio crollo. È scritto nero su bianco in un documento che gli inquirenti hanno trovato all’interno del registro digitale di Atlantia. Eppure, nessun report di Spea (la società addetta ai monitoraggi e alla manutenzione del viadotto), finora, aveva mai evidenziato un simile rischio.

L’attestato, secondo quanto scrive Repubblica, è stato sequestrato lo scorso marzo dai finanzieri nella sede romana di Atlantia e in quella di Autostrade per l’Italia.

Si tratta di un “documento di programmazione del rischio” stilato dall’Ufficio Rischio di Aspi. Un documento che è transitato sui tavoli di tutti i consigli di amministrazione che si sono succeduti, fino al 14 agosto scorso, sia in Autostrade che in Atlantia.

L’anomalia, come scrive il quotidiano, è che

dal 2014 al 2016 del “Morandi” si parla di «rischio crollo». Dal 2017, a sorpresa, la dicitura è trasformata in «rischio perdita stabilità».

Una bella differenza. Perché dire che c’è una perdita di stabilità non vuol dire scrivere che il ponte può crollare. Si sarebbe potuto limitare il traffico per sanare il problema. Se invece si scrive che il viadotto è a rischio crollo è necessaria l’immediata chiusura. E il Ponte Morandi non è stato inibito al traffico. Anzi, 43 persone sono morte travolte nel suo crollo.

Secondo fonti di Atlantia e di Aspi l’attestato in questione è stato presentato ai cda per informare gli azionisti, per programmare gli interventi e per chiedere consulenze tecniche a ditte esterne.

Non a caso, nell’autunno del 2017, ne fu chiesto uno al Cesi di Milano che suggerì alcune soluzioni per gli stralli corrosi dall’acqua piovana e dalla vicinanza al mare: controlli trimestrali mirati, applicazione di sensori e prove riflettometriche. Nessuna di queste indicazioni, però, fu accolta e messa in pratica.

Soprattutto, il nodo su cui intendono concentrarsi i pm riguarda il progetto di retrofitting presentato da Autostrade. Fu sottoposto alla valutazione del Provveditorato alle Opere Pubbliche solo nel febbraio 2018. E solo nel giugno dello stesso anno arrivò al Mit. Eppure il pericolo di crollo era certificato da quattro anni. Perché questo ritardo?

Un ritardo che cozza con un altro dato: dal 2014 in poi le polizze assicurative sul viadotto genovese erano aumentate notevolmente.

Oltre a questo, gli investigatori vogliono capire perché, data la certificazione, il livello di sicurezza del ponte, nei report, era tenuto comunque basso, in modo da non implicare né chiusure né limitazioni al traffico.

L’ipotesi che si fa strada, anche dalle intercettazioni telefoniche, è che i report fossero edulcorati per evitare la chiusura del ponte e per risparmiare sui costi.

Il documento in questione è stato finora tenuto nascosto dalla procura e dalla Guardia di Finanza, scrive Repubblica. Finora. Di questo ed altri temi gli investigatori chiederanno conto domani ai primi interrogati tra i dirigenti e tecnici di Spea sottoposti a misura cautelare.

Il primo ad essere ascoltato sarà Antonino Galatà. Sono in tanti a puntare il dito su di lui. Dipendenti e dirigenti di Autostrade, Spea e dello stesso Ministero delle Infrastrutture hanno dichiarato che Galatà sa molto dei monitoraggi effettuati o meno, anche sul Morandi e dei giudizi in fotocopia redatti nei report.

Anche sulla sua scrivania è transitato il documento che parlava di rischio crollo. Eppure, finora, nessuno ne aveva parlato.

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