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Quel tal Maradona

“Buongiorno dottore” – disse porgendomi la sua mano – “sono Diego Armando Maradona”. La paura più grande è quella di uscire da una storia e non poterci più rientrare

Quel tal Maradona
Mandatory Credit: Photo by Meazza Sambucetti/AP/Shutterstock (7332841a) Diego Maradona Argentine soccer superstar Diego Armando Maradona cheers after the Napoli team clinches its first Italian major league title in Naples on Diego Maradona, Naples, Italy

Negli anni avevo trattato numerosi pazienti affetti da manie. Erano generalmente soggetti che manifestavano disturbi bipolari più o meno tipici: estrema loquacità, distraibilità accentuata, agitazione psicomotoria e, molto spesso, autostima ipertrofica. Fu per questo che, quando lo vidi varcare per la prima volta la soglia del mio studio, non mi sorpresi più di tanto nell’ascoltare il nome con cui quel signore sulla cinquantina mi si presentava: “Buongiorno dottore” – disse porgendomi la sua mano – “sono Diego Armando Maradona”.

Devo aggiungere che non riuscì a stupirmi eccessivamente neppure la straordinaria somiglianza fisica di quell’uomo con il campione argentino, per quanto la postura, il tono della voce e l’inconfondibile accento sudamericano con cui si esprimeva, ricordassero in modo impressionante quello che, indubbiamente, è stato il più rappresentativo mito universale degli anni Ottanta.

Da quando avevo smesso di consacrarmi alla ricerca per dedicarmi ai miei pazienti, la mia attività era diventata ogni giorno più routinaria. Proprio mentre quotidianamente le neuroscienze cominciavano a scoprire, in diverse aree del cervello, nuove reti di cellule in grado di spiegare scientificamente i comportamenti più balzani messi in atto dagli esseri umani, il mio lavoro si andava riducendo all’ascolto di storie surreali di individui investiti da sindromi dall’esito quasi sempre scontato: che si trattasse di disturbi olotimici o di depressioni maggiori, di Capgrass, piuttosto che di Fregoli, l’unica terapia di cui la mia esperienza mi suggeriva di fidarmi era quella dell’ascolto: ascoltare storie restava, in fondo, il mio unico e vero mestiere. Per la cura vera e propria non mi restava che passare la palla, casomai in un momento successivo, ai giovani astri emergenti della neurofarmacologia che, con pochi grammi di un prodotto chimico adeguatamente somministrato, sarebbero riusciti a tenere a bada qualsiasi genere di comportamento deviante. Nel frattempo, per quanto strane potessero apparire alcune storie, l’indifferenza era diventata lo strumento pratico fondamentale da associare alla mia routine professionale.

Tuttavia l’incontro con quel tal Maradona mi avrebbe definitivamente rivelato che, di fronte ad alcune questioni riguardanti il comportamento degli esseri umani, non c’è farmaco che tenga; che alcune apparenti devianze non possono essere comprese, né tantomeno risolte, se non affidandosi all’immaginazione creativa. Quel Maradona mi costrinse insomma a dover accettare il fatto che, talvolta, incrociamo persone con cui condividiamo situazioni e proviamo sensazioni che si collocano ben al di là della nostra cosiddetta Realtà.

Quel Maradona, in effetti, sembrava non avere niente in comune con il mondo reale. Tuttavia quell’uomo era pronto a condividere con me una storia che mi avrebbe inesorabilmente trascinato da qualche altra parte. Non avremmo dovuto far altro che recitare il ruolo che ci era stato assegnato: due individui che si trovavano per caso a vivere nello stesso luogo, in una città che ne ospitava circa almeno un altro milione, quasi del tutto estranei gli uni agli altri, un canovaccio già rigidamente predisposto da individui altrettanto estranei.

Comunque sia, al termine di quel primo appuntamento, fui colto da un senso d’irrealtà. Ebbi per la prima volta, nel corso della mia lunga carriera, la sensazione di averli inventati tutti io tutti quegli estranei, compresi i pazienti che di ora in ora avevano attraversato nel corso degli anni, mattina e pomeriggio, la porta del mio studio. C’era qualcuno, qualcun altro, a parte la mia segretaria Terese (sostanzialmente estranea anche lei) in grado di confermare che i miei pazienti esistessero per davvero? Mi resi conto di quanto potesse essere apparsa assurda quella stessa frase che, poco prima di congedarlo, avevo rivolto a quel tal Maradona.

Prima di proseguire vorrei esplicitare meglio il perché abbia deciso di soffermarmi su questo strano caso. Alla meglio, infatti, si potrebbe trattare di una storia inventata, e non di un accadimento che fa realmente parte della mia reale esistenza. Sappiamo, però, che non bisogna raccontare la vita, ma la verità. Perché la vita è la vita, e la verità è, invece, soltanto un punto di vista. Si dà il caso, tuttavia, che entrambe possano essere raccontate solo attraverso le parole. La vita e la verità sono fatte di parole. E una cosa sono le parole della vita, tutt’altra cosa sono le parole della verità. Si tratta di due diverse modalità di espressione, entrambe verosimili. Messe insieme, queste due modalità costituiscono il fondamento di ogni finzione.

Quando uno racconta la verità, difficilmente viene creduto. Se invece uno ammette di aver raccontato una finzione, il minimo che gli possa capitare è di essere sospettato di voler camuffare una verità scomoda o pericolosa. Tanto è così che, da un punto di vista legale, è sempre meglio cautelarsi e dichiarare che “ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale”. Insomma, non è mai così facile raccontare la verità!

Ad ogni buon conto, per quanto poco verosimile possa apparire, a me è successo. È successo di incontrare Maradona. Tuttavia – e qui sta il bello! – ho motivo di credere che il Maradona che ho incontrato io, e che sosteneva di essere “quel” Maradona, non era un “altro” Maradona, un “falso” Maradona o semplicemente un povero pazzo, ma il Maradona “vero”. E questa, forse, è una verità un po’ più difficile da credere. Quantomeno perché, sulle prime, potrebbe apparire poco verosimile.

Il pomeriggio del secondo appuntamento con quel tal Maradona, per quanto leggermente turbato, mi apprestavo a visitare regolarmente quello che, tutto sommato, mi sembrava essere un paziente come tanti. Gli strinsi calorosamente la mano, lo feci accomodare e cominciai con alcune domande di routine, più che altro per rompere il ghiaccio e cercare di inquadrarne meglio l’eventuale patologia. Tra una domanda e l’altra, come da copione, gli chiesi di mostrarmi un suo documento d’identità, giustificando la richiesta in termini burocratici, al fine di poter compilare correttamente la sua cartella clinica. Con un sorriso un po’ amaro, e fissandomi tristemente negli occhi, Maradona poggiò sulla scrivania il suo passaporto argentino e mi disse:

  • Vedo che anche lei non crede davvero che io sia Maradona…
  • Non è questo – risposi in tono professionale – è che ho bisogno di verificare i suoi documenti per motivi professionali.
  • Non vedo cosa c’entri un pezzo di carta con l’identità di una persona. Lei dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro, considerato il suo mestiere.
  • Dovrei sapere cosa?
  • Che quel documento che lei sta esaminando non ha niente a che fare con il mio vero io. Nel 1989 mi è stata attribuita una nuova identità. Un altro nome, un’altra data di nascita e un altro luogo di nascita. Secondo il certificato che ora lei ha tra le mani, io sarei nato il 18 novembre 1961. Tale data, però, non corrisponde né alla storia della mia vita, né ai miei ricordi. La verità legalizzata è una cosa, quella di una vita è un’altra. Nel corso degli anni che vanno dal 1984 e il 1989 ho infatti potuto disporre in un altro documento di identificazione al quale corrispondeva un’altra identità: quella di Diego Armando Maradona, appunto. È un’identità che mi è rimasta appiccicata addosso, che sento sulla mia pelle e dalla quale non credo di poter riuscire più a liberarmi. Almeno non in questa vita.
  • Capisco. In effetti qui c’è scritto che il suo nome è – o sarebbe, mi corressi – Ricardo Montero. Sarebbe nato, appunto, il 18/11/1961 a Neuquén, in Argentina. Tuttavia lei sostiene di non essere Ricardo Montero, giusto?
  • Non esattamente. Veda, dottore, non è che io voglia rinnegare di essere, o di essere stato, in un tempo oramai remoto, anche Ricardo Montero. Il fatto è che non lo sono più. E non lo sono più da un pezzo, perché nel frattempo sono diventato, come le ho appena detto, Diego Armando Maradona. Ho anche provato a fare ricorso alla giustizia contro questa identità arbitraria.
  • Capisco, signor Montero. O signor Maradona, se preferisce. La questione che lei pone è comprensibile, a volte anch’io ho desiderato di essere un altro. Soprattutto se questo Altro in cui mi sarebbe piaciuto identificarmi era un campione, o un vero e proprio eroe come Maradona. Comprendo anche come lei, in particolare, considerando la sua strabiliante somiglianza fisica con Lui, si possa essere talvolta trovato in situazioni che abbiano potuto far aumentare il suo stato di confusione.

Durante la conversazione, osservando l’atteggiamento sereno e deciso del mio paziente, stavo gradualmente presagendo la possibilità di uno sviluppo terapeutico alquanto ottimistico. Forse non era un caso poi così grave; era probabile che si trattasse di un disturbo psicotico piuttosto lieve, forse collegato anche a qualche trauma infantile irrisolto; insomma stava nascendo in me l’illusione che si potesse trattare di una fissazione non necessariamente irreversibile e che forse avrei presto potuto aiutare il mio paziente a guarire da quella sua mania.

  • Ciononostante – proseguii dopo una breve pausa – esistono dei principi di convivenza sociale molto semplici, che sono sicuro lei comprenderà senza molta fatica. Ad esempio, il principio per cui non possono esistere due persone con una stessa identità. Per cui, se esiste un Diego Armando Maradona, calciatore numero uno al mondo, non ce ne può essere un altro. E questo anche indipendentemente da ogni possibile documento.
  • Con questo lei intende dire che può esistere solo un Maradona?
  • Certo. Solo uno può essere il vero Maradona.
  • E un eventuale altro Maradona dovrebbe pertanto essere necessariamente falso?
  • Più o meno è così!
  • E lei vorrebbe dirmi che quel grassone, alcolizzato e tossicomane, che a stento si regge in piedi e non è in grado di completare una frase dotata di senso, che di tanto in tanto vediamo apparire sugli schermi di tutto il mondo, debba essere considerato Maradona e io non possa legittimamente avanzare la stessa pretesa? Lei intende sostenere che “quel” Maradona che esce ed entra da una clinica sia lo stesso Maradona che ha incantato tutti con la sua arte calcistica? Ma per cortesia, non sia ridicolo.
  • La gente cambia! Anche lei sarà disposto ad ammettere, ritengo, di essere diventato una persona diversa da quella che era venti o trent’anni fa; che il Ricardo Montero di oggi, ad esempio, sia molto diverso da “quel” Ricardo Montero degli anni Ottanta.
  • Il punto è esattamente questo, mio caro dottore. La questione determinante è che negli anni Ottanta, e precisamente dagli inizi di luglio 1984, e fino all’autunno del 1989, io ho smesso di essere Montero e sono diventato Maradona. Nessuno se n’è accorto, ma durante tutto quell’intenso periodo io sono stato proprio “quel” Maradona “vero” a cui lei alludeva poco fa. Nessuno se ne rendeva conto perché non si doveva sapere, perché era assolutamente proibito dirlo a chicchessia, ma la verità è che nel corso degli anni Ottanta a Napoli ci sono stati due Maradona: io e l’Altro.
  • Capisco – lo interruppi, credendo di intravedere nelle sue parole gli esordi di un discorso totalmente delirante – mi rendo conto. Erano anni di un’effervescenza straordinaria, quegli anni Ottanta. In particolare per una città come Napoli, e soprattutto per tutto ciò che riguardava Maradona: striscioni dappertutto! Napoli tre cose tiene belle: o’ mare, a’ pizza e Maradona; Maradona, sei l’unica luce nel buio di questa città. E poi, nei ristoranti, si potevano mangiare Linguine alla Maradona o Pizze Maradona; e poi, ancora, inni a Maradona, il Tango di Maradona, magliette con il volto e il nome del Pibe de oro stampate dappertutto. Genitori che battezzavano i figli con il nome del loro idolo… un vero delirio collettivo, insomma.
  • Mi ascolti, dottore, come vede, io somiglio molto a Maradona. E, se mi consente, quel Maradona a cui lei si riferisce potrebbe oggi somigliare molto più a me che non all’Altro.
  • Il grassone, intende? Sì, su questo non ci sono dubbi.
  • Bene. Agli inizi di questa storia – lo ammetto – ero stato io a imitare l’Altro.
  • Si deve rendere conto che si trattava di un atteggiamento normale, soprattutto negli anni Ottanta, come le dicevo.
  • Sì, ma io le sto dicendo che non l’ho imitato allo stesso modo in cui lo hanno fatto tanti altri. Io sono stato “veramente” lui. Sono venuti un giorno a parlarmi due signori di cui è oramai inutile che le riveli l’identità – un italiano e un argentino – fuori dall’Estadio de “La Chacra”, a Neuquén. Io giocavo con il Club Atlético Independiente. Devo ammettere che ero un giocatore assai modesto, ma di una certa fama, proprio perché somigliavo moltissimo a Maradona. Anche nei movimenti gli somigliavo, tranne per il fatto che io usavo prevalentemente il piede destro mentre lui, come è noto, usava solo l’Altro Piede. Negli anni Ottanta tutti volevano essere come lui. Tutti avrebbero voluto avvicinarlo, scattarsi una foto con lui, toccargli anche solo la manica della giacca o la suola delle scarpette. Un suo capello, come saprà, è ancora oggi conservato come una reliquia in una teca del Bar Nilo, al centro antico di Napoli. Chiunque – me compreso – avrebbe pagato oro per un suo autografo. Tutti volevano essere come lui, arrivare dove era arrivato lui.
  • Tutto questo mi è chiarissimo – lo interruppi. Ma, torniamo ai due signori di cui mi parlava.
  • Sì, ha ragione. Le risparmio i dettagli: in poche parole mi proposero di diventare Maradona.
  • In che senso, non mi è chiaro.
  • Mi chiesero di trasferirmi a Napoli e di sostituirlo in alcune occasioni. Mi spiegarono che bisognava preservare assolutamente la sua integrità fisica, e che la situazione gli stava sfuggendo di mano. Che i napoletani non lo lasciavano in pace, che aveva perso la sua libertà, che si stava intristendo, che voleva fuggire, che per la disperazione aveva cominciato a bere, a drogarsi e che stava cominciando a frequentare brutti giri. Insomma avevano bisogno che, almeno in certe occasioni, qualcuno lo sostituisse. Io, insomma, in determinate circostanze, sarei stato perfetto per diventare lui.
  • Le proposero di fare il Sosia, in sostanza. E lei accettò, immagino.
  • Ero molto povero, lavoravo a cottimo per una piccola fabbrica di scarpe. L’identità alla quale mi chiedevano di rinunciare, detto onestamente, non era una gran cosa. I soldi che mi offrivano loro erano tanti.  E poi era una proposta esaltante. Avevo l’occasione di essere Maradona. Chi, sano di mente, si sarebbe mai rifiutato…?

Credo sia stato quello il momento esatto in cui il mio atteggiamento nei confronti di quel Maradona cominciò a cambiare. Intravidi nella disperazione del suo sguardo “qualcosa”. Qualcosa di autentico, qualcosa di vero.

Purtroppo, però, proprio in quello stesso momento, Terese mi fece pervenire il segnale convenuto con cui mi avvisava che l’ora di terapia era terminata e che un altro paziente attendeva il suo turno. Malvolentieri dovetti congedare quel tal Maradona, pregandolo di accordarsi con Terese per un prossimo appuntamento.

Quella notte feci fatica ad addormentarmi. Non vedevo l’ora di poter rientrare in quella storia: di sapere qualcosa in più; qualcosa che avesse un senso. Quello strano personaggio aveva toccato qualche mia corda interiore che mi spingeva a volermi sentire a tutti i costi partecipe di quella sua realtà. Sentivo che quel Maradona mi avrebbe aiutato a comprendere qualcosa di più su come funzionano le persone, su quei patetici segreti che si nascondono dietro a questa grande farsa in cui ci astraiamo quotidianamente, rifugiandoci nelle nostre rituali abitudini.

Quel Maradona era qualcuno, qualcuno di vero. Quel Maradona viveva certamente da un’altra parte, una parte che avrei tanto desiderato visitare. Quel Maradona era rimasto incastrato in un altro tempo, i trionfanti e deliranti anni Ottanta, un tempo in cui era giunto all’apice, aveva vissuto il sogno che tanti avrebbero voluto vivere, incarnando un personaggio divenuto mitico per tutti noi napoletani.

E adesso quell’uomo somigliava a un uccello intristito, che qualcuno aveva scagliato giù dal cielo.

Se era uno psicopatico, non lo era più di altre centinaia di migliaia di persone; se era un bluff, non lo era certamente più di chiunque altro, me compreso. Anch’io desideravo fortemente essere qualcuno che significava qualcosa, qualcuno che avesse un senso. Come tutti, lo avevo desiderato fin da bambino, da quando, per gioco, impersonavo i miei tanti eroi, salvo aver poi sbarrato la porta e relegato, come capita a tutti, i miei desideri al mondo della fantasia. Eppure, avevo mai abbandonato veramente quei miei profondi desideri di essere un Altro diverso da me? Non ci avevo mai pensato prima! Volere quel qualcosa in più. Andare al di là. Desiderare un Altrove: era quella l’unica malattia di cui, in fondo, soffriva quel tal Maradona. Non vedevo l’ora di poterlo incontrare di nuovo per poter prendere nuovamente parte a quel suo delirio, per poter provare a condividere quella sua realtà, per farmi accompagnare, anche per una sola ora, al di là.

Da quando lui era uscito dal mio studio, l’angoscia si era intrufolata al di qua.

L’ansia era in agguato. La routine dei giorni successivi si trasformò in una penosa e interminabile pausa d’attesa. Finalmente arrivò l’ora del suo ricevimento. Maradona mi salutò cordialmente e si accomodò sul divanetto.

  • Come si sente, oggi? – gli chiesi.
  • La mia vita oramai non ha più senso. Mi trascino stancamente di qua e di là. Non ho bisogno di lavorare. Con tutto quello che ho messo da parte negli anni Ottanta, potrei campare comodamente altri cent’anni. Ma non sarà necessario, ovviamente. Non riesco a uscire da quello che sento ancora essere il mio vero mondo, un universo oggi diventato triste e solitario, in cui tutti cercano di evitarmi, ma dove una volta la gente faceva a botte per entrare.
  • E quando è finito, il tutto?
  • Dal maledetto giorno in cui, come d’accordo con i miei due capi, rilasciai quella dannata dichiarazione.
  • Quale dichiarazione?
  • Nell’estate del 1989 avevano fatto firmare a Maradona, l’Altro, un contratto con l’allora presidente dell’Olympique Marsiglia, Bernard Tapie. Era tutto fatto. Ferlaino gli aveva promesso che, se il Napoli avesse vinto la Coppa Uefa, ci avrebbe lasciati liberi di trasferirci in Francia. La coppa la vincemmo, ma poi il presidente del Napoli non mantenne l’impegno. Sembrava un complotto. L’Altro non riusciva più a reggere la nostra farsa. Da allora crollò tutto. Da un giorno all’altro il mio mondo andò in frantumi. Dopo alcune settimane mi comprarono un biglietto di sola andata per l’Argentina, trasferirono una notevole quantità di denaro, come buonuscita, su un conto intestato a Ricardo Montero presso il Banco Patagonia e mi chiesero di non farmi mai più vedere. Da quel momento in poi non sarei più potuto essere Maradona. A partire da quell’istante non sono potuto essere altro che me stesso, il che equivale a dire che non sono potuto essere altro che niente. Per anni e anni tutti avevano creduto che io fossi lui. Non lo conoscevano, e pertanto non potevano non riconoscermi. Ero io quello che appare in migliaia di fotografie dell’epoca. Spesso contraevo il volto o forzavo il sorriso per somigliare quanto più possibile all’Altro. Ero sempre io quello che rispondeva a centinaia di interviste radiofoniche e televisive, accusando arbitri e denunciando complotti, assumendo atteggiamenti simili ai suoi. In fondo era quello che mi veniva richiesto. Mi pettinavo come lui, curandomi la riccia capigliatura allo stesso modo e dal suo stesso parrucchiere personale; mi vestivo come lui, secondo i suoi gusti, non secondo i miei; mi muovevo esattamente come faceva lui. Sono arrivato a parlare esattamente come lui, esprimendomi con la sua stessa cadenza, assumendo le sue stesse pause, il suo stesso tono; ridevo con la sua risata e, in molte occasioni, alle cene finivo per mangiare quello che avrebbe mangiato lui invece di quello che avrei preferito io. Fuori dalla villa di Posillipo in cui vivevo con alcuni membri della sua famiglia – mentre lui si rifugiava chissà dove – si radunavano ogni giorno centinaia di persone. Se scendevo a fare un giro, si scatenava il delirio. Non appena qualcuno mi avvistava per strada, si spargeva immediatamente la voce e il traffico si bloccava intorno a me. Centinaia di volte sono stato circondato da gruppi di bambini pazzi di emozione, perché credevano che io non fossi quello che ero, ma un altro; che io non ero io, ma l’Altro.
  • Erano in molti a cercare di imitarlo.
  • Sì, ma nessuno gli somigliava come me. Nessuno era me. Nessuno era così simile al modello da confonderlo con lui. Nemmeno le sue figlie, a volte, ci riuscivano. Per non dire di mio figlio, del mio unico, vero figlio…; ma questa è tutta un’altra storia. Comunque era anche quello il motivo per cui mi pagavano, e non sto certamente qui a lamentarmi. Ciò che vorrei far capire, almeno a lei, è che in fondo quello che mi si chiedeva non era molto diverso da quanto si richiedeva anche a lui. A entrambi chiedevano di essere Maradona. All’Altro chiedevano di andare in campo, di allenarsi, di giocare, di segnare gol, di alzare coppe. A me chiedevano di partecipare a cene, eventi mondani, rispondere a interviste, e tante altre cose che non vorrei rivelare.
  • Tipo?
  • Lasciamo stare: storie di donne, di malavita, di droghe… ma, le ripeto, lasciamo stare.
  • Mi sta dicendo che quello non era Lui? Che il Maradona che giocava non era lo stesso che partecipava ai festini con le prostitute, che assumeva alcol e droghe? Che non sarebbe Sua l’immagine che appare in quella celebre foto nella vasca a conchiglia con i boss della camorra…?
  • Come avrebbe potuto essere l’Altro? Mi pare evidente che quello sono io. Chi potrebbe metterlo in dubbio? Come avrebbe fatto, l’Altro, a fare quello che ha fatto, se io non mi fossi sostituito a lui al momento opportuno? Ad esempio, come crede che abbia fatto, l’Altro, a superare tante volte i test antidoping?
  • Cioè era lei a presentarsi ai controlli al posto suo?
  • Quelle urine analizzate sono sempre state le mie. Lo potrei dimostrare quando vuole. Di fronte a qualsiasi tribunale. Quando poi venne deciso che era giunta l’ora di farla finita con tutta quella farsa, allora si presentò l’Altro. E le cose andarono come tutti sappiamo.

Anche quella seconda volta Terese interruppe la nostra seduta di terapia. Anche quella seconda volta avvertii un profondo senso di vuoto e di impotenza quando Maradona uscì dal mio studio. E anche quella volta non vedevo l’ora di poterlo rivedere quanto prima. Avrei avuto ancora tante cose da chiedergli, tante curiosità, tanti dubbi da fugare. Mentre mi salutava, in quella che io ignoravo essere l’ultima volta in cui avrei incrociato il suo sguardo, aveva infine avuto il tempo di sussurrarmi:

  • Lei sa cos’è una malattia, dottore? Capisce di cosa hanno paura, tutti? Forse di non essere compresi? Forse della solitudine? No, dottore, sono tutte balle! La paura più grande è quella di uscire da una storia e non poterci più rientrare; di uscire dal campo con la tremenda consapevolezza di non poter più partecipare alla partita: è guardare gli altri che giocano mentre tu hai una gamba frantumata. Quest’ultima, però, non è una frase mia: sono le ultime parole che mi disse l’Altro prima di congedarmi.

Fu allora che arrivò l’angoscia. La realtà mi stava scivolando nel vuoto. Troverò mai qualcuno in grado di confermare che quel tal Maradona sia esistito per davvero?

Ricordo con nitidezza che in quel preciso istante pensai, vedendo entrare il paziente successivo, che irrimediabilmente era passata un’altra ora della mia vita.

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