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L’italiese, le telecronache e il calcio in tv: esotismo e amenità varie

Il linguaggio del calcio in tv, tra luoghi comuni, termini importati, risposte scontate e avverbi rafforzativi: un lessico e una grammatica a parte.

L’italiese, le telecronache e il calcio in tv: esotismo e amenità varie

Abbiamo perso per l’errata
applicazione di un meccanismo
di pressing a L rovesciata»

Franco Scoglio

Chissà per quale strana ragione Alessandro Faiolhe Amantin, forte centrocampista brasiliano della Roma, ha scelto un cognome italiano. Fatti suoi. Per tutti gli appassionati di calcio è semplicemente Mancini, ce l’ha scritto anche sulla maglia. Per i telecronisti d’avanguardia, uomini di mondo e poliglotti, si legge in tutti i modi, tranne che all’italiana. Mancini diventa «Mansini» oppure «Manzini», solo perché è straniero. E se il giovanotto si incrocia con il Mancini allenatore dell’Inter, nato a Jesi, che succede? Nella stessa partita ci saranno due versioni ufficiali dello stesso cognome.

Una situazione analoga si perpetuava sempre nell’Inter fino a qualche anno fa. Se la palla arrivava al centrocampista italiano Cristiano Zanetti, tale rimaneva. Se si giocava dalle parti dell’omonimo capitano interista, argentino di chiarissime origini italiane, ecco la botta di cultura: Javier «Sanetti». Nel Napoli che ha rimesso piede in serie A ci sono due giocatori uruguayani, i cui nonni partirono dall’Italia del Sud in cerca di fortuna: Bogliacino e Amodio. I loro cognomi sono rigorosamente pronunciati «Bogliasino» e «Amòdio». Il neoacquisto Gargano è già diventato «Gàrgano».

Darsi un tono (con le lingue)

Darsi un tono, quando ci vuole ci vuole. Come uno dei tanti opinionisti usa e getta, il cui grado di autorevolezza era prossimo allo zero, che per darsi un’aria cosmopolita raccontava durante un insulso salotto tv di aver fatto un viaggio di lavoro in Catalogna alla ricerca di notizie di mercato. Ebbene sì, egli era stato nientemeno che a «Barsellona», la nota città rivierasca italo-spagnola. Magari un po’ veneta e un po’ catalana.

D’altronde siamo stati capaci di re-importare e diffondere supinamente un italianissimo cognome francesizzato. Quando Michel Piatinì, figlio di immigrati italiani, venne a giocare nella Juventus, non tornò ad essere il Michele Platini, registrato all’anagrafe del comune di Joeuf ma rimase, solennemente, le roi Platinì.

Inglesismi

E proposito dei quattro quarti di nobiltà, vuoi mettere il fascino delle telecronache quando si introduce anche un pizzico di british? I giocatori che si preparano per entrare in campo subiscono una preoccupante mutazione genetica.

Non si riscaldano, sarebbe scontato: fanno warm up ai box. D’ora in poi sarà il caso di chiedere al telecronista, sfruttando l’interattività dei canali satellitari, se il calciatore motorizzato monta le gomme da asciutto o da bagnato e quanta acqua ha caricato nel serbatoio dello stomaco.

La ribattuta a rete su respinta del portiere è un tap-in; un tiro insidioso da fuori area è uno shoot-out, il regista della squadra è il playmaker. I minuti di recupero e gli eventuali tempi supplementari sono rubricati come extratime. Nella folla che occupa la panchina non si hanno più tracce del dirigente accompagnatore, ora spicca la figura moderna e dinamica del team manager. La sera le tv non daranno le immagini salienti della gara (roba antiquata), allo spettatore offriranno le highlights.

I siti web dei club più famosi informano in tempo reale i tifosi con le breaking news. È sparita pure la gloriosa e bistrattata Coppa Italia, ora si chiama Tim Cup, in onore del suo celebre, manco a dirlo, main sponsor. Gli spareggi promozione sono i play off, quelli salvezza i play out. A parte il campionato di Serie A, che conserva una struttura tradizionale, gli altri sono delle regular seasons. Molti club non applicano il tetto salariale ai loro calciatori ma il salary cap.

Gol

Per fortuna che in passato ci siamo tolti un po’ di schiaffi da faccia cancellando penalty, corner, off side, mister (che resiste sui campi di provincia) per introdurre calcio di rigore, calcio d’angolo, fuorigioco, allenatore.

Un capitolo a parte merita il gol, momento clou della partita. Raramente un gol è solo bello. E quasi mai è normale o fortunoso. Ogni volta che un urlo sovrumano manda in frantumi lo schermo sta annunciando la rete del secolo: straordinaria, irripetibile, sensazionale. E poi, giusto un tono più sotto: splendida, magnifica, eccezionale. La dinamica è del tutto ininfluente. Non conta se il calciatore ha segnato a porta vuota o a mezzo metro dalla linea bianca, se ha affossato il difensore o il pallone gli ha sbattuto sul sedere mentre vagolava per i fatti suoi. Dettagli. L’evento va celebrato come si conviene. Convulsioni comprese.

Luoghi comuni, esagerazioni

Già, perché il linguaggio calcistico è ormai ostaggio dei luoghi comuni, in un senso, e delle esagerazioni, nell’altro. L’unico lasso di tempo durante il quale si riduce un pochino la divulgazione di solenni amenità è proprio l’ora e mezza della partita. Ma dalle dichiarazioni rese a caldo negli spogliatoi fino all’immediata vigilia dell’incontro successivo si scatena un impetuoso rincorrersi, tra giornali, tv, radio e internet, di profondissimi concetti e argomentazioni che oscillano dall’ovvio assoluto all’apocalittico.

Riflessioni perentorie da tramandare ai posteri: «Andiamo in campo per vincere» (se fosse il contrario sarebbe calcio scommesse); «Gli avversari sono forti e temibili» (che si parli del Real Madrid o del Dopolavoro Fc); «Da oggi in poi saranno tutte finali» (che si giochi in Champions League o in Terza categoria); «Nella nostra squadra siamo tutti riserve» (salvo poi azzuffarsi per un posto da titolare); «È la partita della vita» (solo che si gioca tutte le domeniche); «Abbiamo vinto ma non dobbiamo montarci la testa e rimanere con i piedi a terra» (un minuto dopo sono tutti in discoteca a festeggiare).

Sicuramente importante

Quando inoltre un paio di termini fulminanti rapiscono il cuore e le menti dei protagonisti del baraccone, entrano prepotentemente nel lessico comune, che ci azzecchino o meno, direbbe Antonio Di Pietro. Sono due le parole che spopolano agli albori del terzo millennio: un avverbio, sicuramente, e un aggettivo, importante. Domanda di rito: «Oggi avete giocato un buon calcio, è d’accordo?». Risposta: «Sicuramente». Altra domanda: «Non poteva effettuare prima quella sostituzione?». Altra risposta: «Sicuramente». Analisi della gara: «Un giudizio sui prossimi avversari».

Replica alquanto elaborata: «Sicuramente sono da rispettare». Il campionario prevede anche: «Sicuramente io penso che…»; «Sicuramente c’è ancora molto da fare»; «Ai tifosi dico che sicuramente non retrocederemo»; «Sicuramente la Nazionale è prestigiosa, ma il club ha la priorità». E così per tutti gli usi e gli abusi di circostanza.

Ma sono pochi gli addetti ai lavori che saprebbero rinunciare all’aggettivo importante. Scrive ironico Garanzini (2007): «Oggi tutto è diventato importante. È stata importante la prestazione di quel giocatore, è importante quel giocatore tout court, lo è un tiro, un assist, una parata, un arbitraggio, un risultato, la classifica. E quando è un po’ più che importante fa la differenza».

Assolutamente sì (oppure no)

Variazione sul tema. Alla faccia della loro esplicita esaustività, «sì» e «no» sono considerate risposte povere, incomplete, equivocabili. Occorre renderle incisive, categoriche. Assolutamente sa, per esempio. «Simona Ventura — ha commentato Aldo Grasso sul Corriere qualche anno fa — non è più capace di dire sì o no. Come tutti i ragazzini, e come Fedro del Grande Fratello, sente il bisogno di aggiungere l’avverbio rafforzativo, anche in contesti in cui è totalmente inutile. Glielo hanno fatto notare ieri di “Quelli che il calcio”. In una sola serata è riuscita a raggiungere vertici da record; e anche ieri non si è risparmiata e ha chiuso la trasmissione, passando la linea ad Enrico Varriale, con un assolutamente sì. C’è stata l’epoca del cioè e nella misura in cui — prosegue Grasso — poi quella dell’attimino, adesso viviamo in quella dell’assolutamente sì e assolutamente no. Sono quei modi di dire che rivelano una sorta di disimpegno linguistico, di automatismo verbale. Nulla di più».

2 – fine

(da Italiano, istruzione per l’abuso 2008/2016 – Esa Editore)
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