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L’italiese, ovvero quando nel calcio si “scendeva”

Analisi sul calcio e la sua parola: come, da Sacchi in poi, è variato il lessico del gioco, il modo di definire le squadre, le azioni, gli uomini.

L’italiese, ovvero quando nel calcio si “scendeva”

Parli come badi
Totò

In principio fu Arrigo Sacchi, classe 1946, grossista di calzature mancato e allenatore. Apologeta del calcio totale e teorico della subalternità dei giocatori agli schemi, l’Arrigo da Fusignano sorprese l’indolente e retrivo mondo del pallone ribaltando la filosofia dominante del «primo, non prenderle». Quando il suo Parma eliminò il Milan dalla Coppa Italia con un gioco spettacolare, basato sulla difesa a zona e sul pressing, il presidente dei rossoneri Silvio Berlusconi lo volle con sé.

E mise a disposizione del tecnico ravennate un’autentica macchina da guerra. I Gullit, i Van Basten, i Baresi, i Maldini (atleti dalle straordinarie qualità) divennero gli apostoli del nuovo verbo, i messaggeri di un calcio superiore che aveva nel «primo: darle» l’essenza vera. «Ai miei giocatori — ripeteva Sacchi — chiedo applicazione feroce e intensità», intrecciando la «z» e la «s» nella tipica parlata romagnola.

Il lessico sacchiano

Era la fine degli anni ’80. Il Milan sacchiano cambiò la visione del calcio e l’Arrigo introdusse il suo personale lessico, elaborato quando ancora si alternava tra lo smercio di un mocassino e i giovani del Cesena, facendo agevolmente proseliti tra colleghi di panchina, calciatori e cronisti alla disperata ricerca di affascinanti sinonimi.

Eppure da un secolo e mezzo a questa parte, dalle cosiddette regole di Cambridge, il gioco del calcio non è cambiato. Due squadre di undici elementi ciascuna e sufficientemente organizzate devono darsi pena, per una novantina di minuti, di depositare una o più volte una sfera (il pallone) all’interno di uno spazio delimitato (la porta avversaria) senza toccarla con le mani, altrimenti un tizio in livrea nera o colorata (l’arbitro) fischia e ferma il gioco. Il tutto mentre un altro personaggio a bordo campo (l’allenatore) si sbraccia per fornire utili indicazioni ai suoi giocatori rischiando il collasso.

Certo, ma Sacchi aveva la necessità suprema di rivelare schemi e tattiche al globo terracqueo. Magari attingendo a piene mani dal suo rinnovato vocabolario, fatto di «ripartenze, squadre corte e lunghe, difese alte e basse». Ovvero eleggere il calcio, per citare il suo più famoso aforisma, «la cosa più importante delle cose meno importanti». Fino al punto di inciampare in qualche memorabile dichiarazione del dopopartita: «È stato un avversario ostico e anche agnostico».

Dopo Arrigo

Il guaio è che poi all’Arrigo nazionale si sarebbero liberamente ispirati, imprimendo una vorticosa e arbitraria deriva linguistica, gli ineffabili opinionisti un tanto al chilo spuntati come funghi nell’ultimo scorcio di secolo. Con l’affermarsi delle tribune televisive i commentatori catodici hanno prodotto, per puro esibizionismo, un fornitissimo campionario di neologismi, metafore e iperboli. Che hanno fatto del gergo sportivo, e calcistico in particolare, un linguaggio bello e pronto per l’uso.

È vero, la retorica ridondante degli anni Sessanta e Settanta è stata dura a morire. Ma se durante «Tutto il calcio minuto per minuto» l’asettico Enrico Ameni parlava di «spalti gremiti ai limiti della capienza» per dire che i tifosi stavano peggio delle sardine; se il grintoso Sandro Ciotti segnalava «ventilazione apprezzabile» per comunicare che c’era vento; se l’estatico Ezio Luzzi commentava che il tiro aveva fatto «la barba al palo» per informare che la palla aveva scheggiato la porta, lo facevano per fornire ai tifosi in ascolto un racconto verosimile della gara. A quel tempo la tv non c’era e le emozioni provenivano soltanto dalle gracchianti radioline a transistor.

Oggi

Ora, evitando di attribuire paternità a casaccio, non sappiamo chi per primo abbia conferito allo stadio una pendenza con relativa direzione di marcia. In ogni caso, ai tempi della «Domenica sportiva» in bianco e nero e fino al primo «Novantesimo minuto» risulta che, una volta sul terreno di gioco, le squadre scendessero verso l’area avversaria. I terzini, in particolare, ricevevano la consegna tattica di scendere lungo le fasce laterali per supportare l’azione offensiva. E quando avevano finito? Tornavano. O rientravano.

I ruoli dei giocatori? Essenziali: un portiere, tre difensori e il libero, due mediani, un regista, un’ala destra, una sinistra e un centravanti. Più il portiere di riserva, che giocava solo se decideva di accoppare nottetempo il più bravo e famoso collega. E le formazioni erano filastrocche: Sarti, Burgnich, Facchetti; Zoff, Gentile, Cabrini; Galli, Tassotti, Maldini… «Erano le cantilene dei nonni, dei padri, delle nostre gioventù – ha scritto Gigi Garanzini – di un calcio che ancora non aveva rinunciato all’identità; al contrario la coltivava nei nomi e nei numeri».

Liberismo puro

Invece nell’era degli anticipi, dei posticipi, della partita del sabato pomeriggio, del lunedì notte o di quando ci pare, i club sono soggetti alla legge del turnover (l’italiana rotazione suona male). Che attuano, per modo di dire, con un organico allargato a 35-40 calciatori, un esercito. La prima squadra generalmente va in campo, la seconda opera a mezzo servizio tra manto erboso e panchina, la terza fa le ragnatele in tribuna. E i numeri sulle maglie? Liberismo puro. Ormai è più facile trovare un quadrifoglio che un portiere che indossi il numero uno.

Casacche e numeri sono personalizzati e i giocatori se li portano dietro fino a quando non tolgono il disturbo per andarsene altrove. Libertà di scelta da 1 a 99 senza alcun riferimento tattico o tecnico. Puoi utilizzare le due cifre finali della tua data di nascita, quelle del tuo matrimonio, quelle del giorno in cui hai baciato la tua ragazza per la prima volta.

Il lessico moderno

Tanto per dirne una, nell’estate del 2000 l’inconsapevole Gigi Buffon si sceglie il numero 88 perché, proclama da bravo guerriero “quadripalluto”, «in campo bisogna saper mostrare i doppi attributi». Solo che per i neonazisti di tutto il pianeta l’88 equivale al saluto «Heil Hitler» poiché la H è l’ottava lettera dell’alfabeto. Bufera e deferimento del giocatore alla Commissione disciplinare.

Sfruttando il modernismo concettuale di Sacchi, qualche buontempone nel frattempo s’è preso la briga di sfruttare le insospettabili caratteristiche basculanti del terreno gioco e ne ha ribaltato l’inclinazione (un po’ come l’innovativa tazzina da caffè inventata dal Totò scienziato in una famosa scenetta con Corrado: manico a destra, ma volendo anche a sinistra). Bene, alla luce delle nuove regole gravitazionali, oggi le squadre non scendono più. salgono verso l’area opposta e i terzini (ribattezzati esterni) hanno il compito di salire, appunto, lungo le corsie laterali. I ruoli non sono cambiati ma presentano appellativi adeguati ai tempi. Il portiere resta il tizio incaricato di difendere i pali. Qualche volta, però, si trasforma, quasi ad evocare il sacrificio di Enrico Toti, in estremo difensore.

Terzini, stopper e libero sono diventati difensori esterni o centrali, con possibilità di scambiarsi di posto. Mediani e ali destre si sono estinti in favore dei centrocampisti universali; il regista è un raffinato playmaker di ispirazione cestistica, se arretrato o avanzato dipende dai dettami del santone di turno. Morti e sepolti il centravanti e l’ala sinistra (chi ricorda il mitico Gigi Riva, rombo di tuono?), sono entrati nel lessico la prima e la seconda punta.

Difesa alta, squadra corta

Per seguire le telecronache o i commenti del dopopartita, i meno avvezzi avrebbero bisogno di un traduttore simultaneo. Guai a parlare di difesa avanzata o marcatura profonda. Difesa e attacco, si dice, sono alti. «Il Milan — spiegano gli animatori dei salotti televisivi — ha una difesa alta». Caspita, o Galliani ha comprato il quintetto base dei Los Angeles Lakers oppure Oddo e Jankulovski rubano centimetri alla tv. Tuttavia può succedere che il Milan medesimo, pur con una difesa alta, abbia una squadra corta (cioè con i reparti molto vicini uno dall’altro). Saranno i sette nani l’arma nascosta di Ancelotti?

Se l’Inter strappa il pallone agli avversari non attua più l’anacronistico e impolverato contropiede: effettua una ripartenza. Se la partita è particolarmente dura si parla di gara maschia (presto avremo un incontro femmineo?); oppure se manca poco alla fine resta una manciata di secondi da giocare; oppure se un tiro è sbilenco è da dimenticare. O ancora: se, in linguaggio veterocalcistico, le squadre provano a smarcarsi aggrediscono gli spazi. O bella, che cosa vorrebbero aggredire all’interno di un rettangolo adibito esclusivamente al gioco del calcio?

Il proscioglimento di Sacchi

I sacchiani di stretta osservanza e discendenti non si fanno mancare niente: un affannoso lancio per liberare l’area diventa un suggestivo attacco alla respinta mentre se le squadre cazzeggiano a metà campo per perdere tempo salgono per linee trasversali. Un piattone, infine, non è un pasto abbondante, è un tiro eseguito malamente con l’interno del piede.

La voglia di sorprendere nelle telecronache, sempre più condotte da un giornalista e un esperto che ti raccontano ciò che hai perfettamente visto e capito, genera disinvolte contaminazioni linguistiche con sprazzi di cabaret involontario. E a questo punto Arrigo Sacchi va prosciolto con formula piena.

Il supereroe cubano

Per esempio, l’allenatore Mauro Sandreani, opinionista Rai pacato e competente, commenta una concitata azione in area di rigore rimarcando che «l’Inter quasi si autogolla» mentre in un’altra occasione nota con una certa sorpresa che «la Spagna ha terzini a lunga percorrenza». L’ex centrocampista del Bologna, Eraldo Pecci al microfono sottolinea che «i portiere turchi sono bravissimi. Infatti sono ottomani…».

Nell’enfasi di una diretta radiofonica a «Tutto il calcio minuto per minuto» Antonello Orlando chiama Castromen l’argentino della Lazio Castroman, «trasformandolo — scrive Repubblica (2004) – in una sorta di supereroe impegnato a difendere Cuba dalle mire degli imperialisti». Sembra di vederla l’immagine, il nostro paladino della giustizia affronta i cattivi a muso duro: «Salve, sono Castromen». E si strappa da dosso l’impermeabile da impiegato del catasto, mostrando l’immancabile tutina rosso-fuoco sulla quale campeggia una gigantesca “C”.

– continua –

(da Italiano, istruzione per l’abuso 2008/2014 – Esa Editore)
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