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Amalia Signorelli: “Lo stereotipo di Napoli e del popolo napoletano”

Si è spenta oggi a 83 anni l’antropologa allieva di Ernesto de Martino e cara a Giulio Einaudi. Pubblichiamo un estratto di una sua pubblicazione sullo stereotipo di Napoli

Amalia Signorelli: “Lo stereotipo di Napoli e del popolo napoletano”
Amalia Signorelli

Allievo di Ernesto De Martino, stimata da Einaudi

È morta oggi a Roma l’antropologa Amalia Signorelli. Aveva 83 anni. Allieva di Ernesto De Martino, ha avuto un profondo legame con Napoli. Dal 1978 ha insegnato all’Università Federico II. Numerose le sue pubblicazioni. non ha mai smesso di studiare l’emigrazione. Ha scritto due libri ritenuti fondamentali: “Scelte senza potere. Il rientro degli emigrati nelle zone dell’esodo” (Officina Edizioni) del 1977 e il saggio “Movimenti di popolazioni e trasformazioni culturali” pubblicato nella “Storia dell’Italia repubblicana” di Einaudi del 1995. Giulio Einaudi aveva una grande ammirazione per lei. Si è occupata dei processi di modernizzazione dell’Italia e del Meridione, delle donne e di altro.

Il Napolista ha scelto di ricordarla pubblicando estratti della sua introduzione al libro “Cultura popolare a Napoli e in Campania nel Novecento” che lei curò per Edizioni del Millennio – Guida Editori nel 2002.

Scrisse la sua introduzione su “La cultura popolare napoletana: un secolo di vita di uno stereotipo e del suo referente”.

Lo scudetto del Napoli

In sostanza si propone qui una tesi che avrà fortuna per molto tempo ancora: quella del popolo napoletano che, ad onta della miseria più nera e delle condizioni di vita più avvilenti, riesce comunque a preservare e a esercitare quelle qualità e virtù che la sua natura (gentile e solare, umanissima e civile, preservatasi dai tempi più antichi), gli garantisce e gli alimenta. Questa interpretazioni della napoletanità era destinata a durare, tant’è che dura ancora. Antonio Ghirelli la ripropone, in termini certo più sofisticati, nel suo La magica storia del Napoli, con fotografie di Uliano Lucas, uscito nel 1987 per celebrare il primo scudetto del Napoli.

Vediamo. La notte della festa dello scudetto «è una notte di follia in cui i napoletani rivivono, come accade loro periodicamente, l’emozione dionisiaca di una gioia senza domani. vecchi e neonati sono coinvolti, più o meno consapevolmente, nello strepito infernale, in cui la gente si stordisce dimenticando tutti i suoi guai»; «È singolare questa insistita mescolanza tra la gioia e la maschera. Anche qui i napoletani tornare ad un loro lontanissimo passato, più campestre che cittadino, più pagano che cattolico»; «Maradona, incoronato come un re, viene dipinto da un madonnaro com e un santo. Il popolo è blasfemo senza saperlo, in modo innocente e senza colpa».

La festa per il primo scudetto del Napoli

Non c’è testimonianza che riguardi i napoletani “cattivi”

Questo volume, molto bello e molto utile, testimonia tuttavia la potenza dello stereotipo: la selezione delle magnifiche foto di Lucas esclude qualsiasi testimonianza che riguardi i napoletani “cattivi”. Nel libro di Ghirelli e Lucas non vi è traccia degli slogan aggressivi, delle coreografie di stadio e fuori stadio imperniate su riferimenti sessuali, scatologici, tanatologici e magari anche un po’ razzisti, dei gruppi di “impresentabili” che pure ebbero un ruolo importante nella festa come ad esempio i femminielli dei Quartieri Spagnuoli. C’è solo una foto in cui l’uso di una simbologia scatologica è opera di bambini di sette-otto anni che, indossando la divisa del Napoli, mimano il soddisfacimento dei propri bisogni corporali dentro impianti igienici decorati con i colori delle squadre avversarie; la foto non ha didascalia.

Genuinità e integrità del popolo napoletano

Oltre quelle dell’atavica solare innocenza che si preserva in mezzo al fango e alle disgrazie, c’è un altro insieme di caratteristiche stereotipizzate, che consente di continuare a attribuire al popolo genuinità e integrità ad onta dei luoghi in cui abita e delle attività che vi svolge: sono l’ingegnosità, l’estro, l’intelligenza istintiva, la istintiva tendenza a prendere le distanze dal reale e a filosofare sui guai: attitudini e capacità che starebbero alla base per un verso dell’arte di arrangiarsi e per l’altro del gusto popolare per l’ironia e per il paradosso.

È insomma l’immagine del napoletano che campa d’espedienti o che agli espedienti ricorre per arrotondare il suo reddito, al quale tuttavia si perdonano lo squallore del suo comportamento e la scorrettezza quando non l’illegalità dei mezzi di cui si serve, per due ragioni: per l’inventiva e l’ironia di cui dà prova e perché l’ambiente in cui vive non gli offrirebbe altre possibilità.

Filone frequentatissimo, questo, nel corso di tutto il secolo: l’arte di arrangiarsi e la disposizione riflessivo-dissacratoria sono già presenti in macchiette e sceneggiate di inizio secolo e, variamente coniugate o separate, con varie declinazioni dell’autoironia verso il pessimismo più sconsolato o invece verso una comicità che arriva fino a toni farsa surreale, percorrono la produzione di Eduardo, Peppino, Totò e di molto altro teatro e cinema napoletano e napoletaneggiante, fino al protagonista di Mi manda Picone di Nanni Loy o alla edicolante del terzo episodio di Libera di Pappi Corsicato.

Iaia forte in “Libera” di Pappi Corsicato

(…)

L’ammore

Un’altra componente importante della napoletanità “positiva” è una peculiare grammatica dei sentimenti, costruita a partire da due nuclei forti: la passione amorosa e il legame familiare. Elaborata prevalentemente all’interno dell’universo della canzone, con una continuità che resiste ai cambiamenti degli stili musicali e dei modi di produzione della musica, l’idea “napoletana” dell’ammore è venuta costruendosi con caratteristiche proprie, ben più raffinate e articolate di quelle presenti nella cosiddetta canzone melodica italiana: salienti fra le altre la valorizzazione della sensualità (complici le risorse linguistiche offerte dal dialetto) e la capacità di rappresentare l’esperienza amorosa come esperienza psicologicamente complessa. Quanto ai legami familiari o, per meglio dire, ai legami tra genitori e figli, primo fra tutti quello tra madre e figli maschi, la fissazione dello stereotipo è dovuto piuttosto al teatro e al cinema: valgano per tutti il rinvio a Filumena Marturano di Eduardo, ma anche allo Zappatore di Mario Merola.

Il lato oscuro che viene quasi sempre rimosso

Tuttavia questa napoletanità positiva, solare, umanissima, intelligente, ironica, allegra, sensuale e passionale ha un lato oscuro. Per lo più taciuto e rimosso, quando viene fatto emergere e messo al centro dell’attenzione, esso viene rappresentato come un insieme di tratti terribilmente negativi. Dalle cronache giornalistiche d’inizio secolo a quelle di fine secolo, da Serao e Mastriani a Malaparte fino a un lavoro recentissimo come Nel corpo di Napoli di Giuseppe Montesano, si delinea un mondo nerissimo  durissimo, senza pietà e senza speranza, capace di abbiezioni e di crudeltà estreme, un mondo di cui sarebbe meglio (per riprendere l’immagine di Anna Maria Ortese) che una provvidenziale miopia ci risparmiasse una vista troppo dettagliata. Ma anche questo lato oscuro e negativo è stereotipizzato.

Il napoletano cattivo è più pazzo che malvagio

Spesso ripropone i tratti positivi capovolgendone il segno (un tema classico è le perversione dell’amore materno o paterno); e rappresenta i tratti negativi come ancestrali, immutabili e naturali – e dunque non spiegabili in termini razionali né in termini storici – esattamente come quelli positivi. Di conseguenza questa negatività estrema, efferata, ma nativa e irriflessa, spontanea e autentica, diventa anch’essa un ingrediente della napoletanità. Un ingrediente sotterraneo e latente, per così dire, ma mai del tutto dimenticato. Come tutti sappiamo, Napoli fa anche paura. E tuttavia nell’immaginario condiviso, il napoletano cattivo è più “pazzo” che “malvagio”.

La napoletanità

Naturalmente, qualsiasi osservatore appena un po’ più distaccato può muovere allo stereotipo della napoletanità una serie di critiche pertinenti: i tratti che lo compongono sono incompatibili tra loro, alcuni di essi sono inventati e altri non sono per nulla affatto esclusivi di Napoli e dei napoletani. Ma queste osservazioni, per quanto fondate, contano poco. In verità, ha tanto poco rilevanza che uno stereotipo sia un’invenzione più o meno gratuita, quanto che esso sia uno specchio fedele della realtà. Uno stereotipo è un modo condiviso di vedere e valutare la realtà. Che i tratti di cui si sostanzia non siano né specifici né caratterizzanti di una certa realtà sociale e solo di quella, non ha più importanza del fatto che essi siano veri o falsi: ciò che conta è che “tutti” li considerino veri. Un testo cinematografico a episodi ci permette di verificare empiricamente, a distanza ravvicinata, come le stereotipo consista precisamente nel fatto che Napoli è la napoletanità e che la napoletanità è Napoli.

 

Sophia Loren in “Ieri, oggi e domani”

Ieri, oggi e domani

Si tratta del celeberrimo fil di Vittorio De Sica Ieri, oggi e domani. Il primo episodio, quella della ricca signora viziata, è ambientato a Milano, ma potrebbe svolgersi senza nessuna modifica a Torino o a Parigi; l’episodio della ragazza-squillo, ad onta delle magnifiche vedute di piazza Navona, potrebbe accadere, invece che a Roma, a Madrid o in qualsiasi altra città di un paese ad alto tasso di cattolicità post-tridentina; invece l’episodio della venditrice di sigarette di contrabbando è proposto in termini che escludono che possa accadere altrove che a Napoli: per l’ambientazione e per il mestiere della protagonista, ma soprattutto per il modo in cui sono rappresentati rapporti di coppia, la famiglia, la maternità e la paternità, l’amicizia, la parentela, la fedeltà, il senso del tempo e dello spazio, il rapporto con le istituzioni e con la “Legge”: tutto segnato da trasgressioni e violazioni continue, quotidiane, causate dalla miseria e dall’incoscienza, ma riscattate ex abundantia cordis, da un surplus di vitalità, affettività, ingegnosità, tolleranza e predisposizione al buon umore. Lo spettatori si convince che “queste cose succedono solo a Napoli” e si consola pensando che “… ci ridono loro per primi”. Con l’avallo di due testimonial della napoletanità del calibro di Loren e De Sica; e poco importa che nessuno dei due sia nato proprio a Napoli.

(…)

Anche i napoletani si servono degli stereotipi su di sé

Tuttavia non sono solo gli “altri”, gli estranei a produrre e utilizzare gli stereotipi su Napoli. Come si è accennato, sono stati e sono i napoletani stessi a utilizzarli e a farli circolare. Lo stereotipo può rivelarsi non solo irritante ma anche utile per coloro a cui si riferisce. Anche per i napoletani esso funziona, o può funzionare, come un riduttore di complessità, difficile da gestire nel rapporto con se stessi e con gli altri. Lo stereotipo si offre come una sorta di staffa cui agganciare il primo nodo dell’ordito e della trama dell’identità: lo stereotipo semplifica, fissa, rende comprensibile per tutti ciò che si è («io so’ napoletano e si nun canto moro») definisce ciò che gli altri si aspettano e dunque anche ciò che ci si può aspettare dagli altri. E ancora, affidato agli imprenditori giusti, lo stereotipo può rivelarsi una merce eccellente, che si vende bene e dà ottimi profitti. Quanta napoletanità i napoletani hanno esportato ed esportano? E quanta riescono a esportarne in loco, ai visitatori e ai turisti ansiosi di acquistarla?

Bisogna sottolineare con forza, però, che le funzioni strumentali non esauriscono l’utilità dello stereotipo. Per i napoletani, esso può assumere un’importante funzione espressiva: deresponsabilizza mentre identifica, perché aggrega il singolo a un “noi”, e dunque dà o può dare un senso di legittimazione, persino di forza e di orgoglio. Funzione questa tanto più rilevante per la popolazione di una città che dall’Unità in poi ha vissuto una storia difficile, pesante di regressioni e di delusioni, come sottolineava anche Stazio.

Il senso di colpa dell’Italia

Anche per i non-napoletani, diciamo pure gli italiani, ad alimentare la produzione dello stereotipo non è solo un bisogno di ordine cognitivo (semplificarsi la complessità, pre-costituirsi una mappa); credo (ed è ovviamente una mia ipotesi), che gli stereotipi su Napoli servano anche a esorcizzare, a tenere sotto controllo paura e senso di colpa. Paura di ciò che non si sa o non si può gestire, governare, mettere in ordine, far fruttare; senso di colpa per le occasioni sprecate, le ricchezze, anche immateriali, dilapidate, le vigliaccherie e le rinunce. Incapace di assegnare un ruolo nuovo e innovativo alla ex-capitale più capitale che ci fosse nella Penisola, è come se l’Italia avesse scelto di farne contemporaneamente il proprio giullare e la propria anima nera, un vero e proprio capro espiatorio.

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