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Gianni Minà: «Un giornalista non può stare a piagnucolare, deve far conoscere gli altri non sé stesso»

Ascoltare Gianni Minà è aprire una finestra sul passato. I suoi racconti dell’America Latina, del giornalismo e di quell’ottobre 1974 a Kinshasa

Gianni Minà: «Un giornalista non può stare a piagnucolare, deve far conoscere gli altri non sé stesso»

Allo Scugnizzo Liberato

Per scrivere questo pezzo su Gianni Minà sono andato a riguardare vecchi filmati su YouTube, alcune delle sue famose interviste, alcune vecchie puntate di Blitz.

La verità è che mi costa tanta fatica guardare quelle immagini. Quella grana da Beta Cam mi porta alla memoria un’atmosfera, l’odore di casa, fotogrammi emotivi che emergono dal passato. Una forma di nostalgia dolorosa. Ma non riesco bene a capire perché. Forse perché, cresciuto anche grazie a quelle immagini, anche grazie a Gianni Minà – che evidentemente nella mia famiglia veniva seguito – mi accorgo che quel tempo non c’è più, non c’è più quella televisione, alla quale non posso negare di essere affezionato. Perché a lui è legata, nella storia, la memoria dei miti della mia gioventù: Maradona, Che Guevara, Fidel Castro, Pino Daniele, Massimo Troisi, il Sub Comandante Marcos, Muhammad Ali.

Mercoledì 31 maggio, allo Scugnizzo Liberato, lo spazio occupato a calata Pontecorvo, ho ritrovato nel corpo invecchiato di questo grande giornalista, gli stessi giovani valori e l’energia di chi crede ancora che il giornalismo “serva a qualcosa”.

La storica foto: Minà con De Niro, Alì, Sergio Leone e Gabriel Garcia Marquez

«Il protagonista dell’intervista dev’essere l’intervistato»

I temi toccati sono stati quelli classici della sua cinquantennale carriera. L’etica dell’informazione innanzitutto. La necessità di essere privi di pregiudizi davanti al soggetto della propria indagine, di studiare e ricercare, prepararsi prima di un’intervista. “Bisogna porsi dei dubbi per capire bene la realtà. Bisogna controllare i dati”. Il protagonista dell’intervista deve essere il personaggio intervistato non l’intervistatore, lo scopo del giornalista è far conoscere gli altri non sé stesso.

I giornalisti dovrebbero fare in modo di distinguere invece di adeguarsi. Napoli, così come i “Sud del mondo”, vanno raccontati senza preconcetti, riportando quello che vedi non quello che credi.

L’America Latina

Dunque le ingerenze degli Stati Uniti nella politica interna dell’America Latina vanno ricordate, perché il potere delle multinazionali vuole riprendersi quello che Henry Kissinger definì “il giardino di casa”. Laddove, negli ultimi vent’anni, e nel solco dell’esperienza cubana, il Sud America è stato protagonista di una vera e propria rivoluzione culturale e di disimpegno economico dai legami storici con il mercato nord americano. “Cos’era il Venezuela prima di Chavez?” si domanda Minà, ricordando come la politica sull’istruzione e sulla sanità – anche grazie alla collaborazione con Cuba che ha fornito medici e insegnanti – ha permesso l’emersione di strati sociali depressi nei decenni precedenti.

“I paesi del Latino America hanno commesso anche tanti errori”, la corruzione è un problema che affligge anche loro. L’impeachment con cui è stata esautorata nel maggio 2016 la “presidenta” Dilma Roussef in Brasile è più simile ad un colpo di stato bianco, quando il procedimento ha ricevuto una spinta mediatica smisurata e si basava su accuse per le quali non c’erano in realtà appigli costituzionali. Eppure Temer, l’attuale presidente ed ex vice della Roussef – dopo aver ridotto a zero le quote rosa di ministri (erano nove sotto Dilma) e aver avviato politiche molto conservatrici – è sotto ben tre processi per corruzione e nessun impeachment è all’orizzonte.

I grandi della storia e dello sport si sono sempre fidati di lui

Minà ha ripercorso la sua esperienza latinoamericana, rievocando l’ammirazione per personaggi come il presidente Boliviano Evo Morales e ricordando la famosa e lunghissima intervista (16 ore!) a Fidel Castro del 1987, nonché l’ultima rilasciata dal leader della Revolucion proprio al “viejo Gianni” alcuni mesi prima di lasciare questo mondo.

Questa è stata una caratteristica della carriera di Minà. Tutti i grandi della storia o dello sport da lui intervistati, hanno trovato nel baffuto giornalista una penna pulita che riportasse con fedeltà il loro messaggio, quale che fosse. Si sono fidati di lui. Maradona, per esempio, ha sempre avuto in Gianni Minà un confidente che riteneva sincero e onesto. Così come un gigante come Muhammad Alì nutriva una grande fiducia per il giornalista italiano. Al più grande pugile della storia è stata dedicata la parte più ampia della conversazione che Minà ha tenuto con la folla di persone che ha riempito il cortile dell’ex carcere minorile Filangieri.

L’aneddoto principe è stato la Rumble in the Jungle, il mitico incontro di boxe per la cintura di campione del mondo dei pesi massimi tra George Foreman e, appunto, Alì che si combatté a Kinshasa, Zaire, il 30 ottobre 1974 (guarda un po’ il giorno del quattordicesimo compleanno di Maradona…).

Lo Zaire (che oggi è la Repubblica Democratica del Congo) prima si chiamava Congo Belga perché il re del Belgio Leopoldo II ci era andato a caccia e gli era piaciuto così tanto che, all’inizio del novecento, ne chiese la paternità alla Società delle Nazioni. Gli fu accordata “nel nome della democrazia”.

«Un giornalista non può stare a piagnucolare»

Il titolo di campione del mondo era stato sottratto ad Alì quando nel 1967 rifiutò di arruolarsi per andare a combattere in Vietnam. “Non ho niente contro questi vietcong, loro non mi hanno mai chiamato sporco negro”. Dopo quasi quattro anni di squalifica e altri di dura risalita, era il momento di riprenderselo.

L’incontro del secolo si fece in Zaire per via della potente influenza del dittatore Mobutu. Fu scelto di farlo di notte per permettere la diretta negli USA. La Rai puntava su quelli come Minà, “quelli che ti portano la bistecca in bocca”.

Per avere i visti, siccome non si riuscivano ad ottenere attraverso vie tradizionali, Minà racconta che insieme all’operatore Gualtiero Brescini fecero “una violenza” all’ambasciatore congolese, andandolo a trovare direttamente a casa a Roma e così ottennero i permessi. “Perché un giornalista non può stare a piagnucolare se non ti danno i visti; esci e trova il modo di ottenere ciò che ti serve per fare il tuo lavoro!”

Kinshasa 1974

“In Zaire si era sempre di fretta”, perché Alì accordava interviste solo all’alba, tra le sei e le sette del mattino e non ci si poteva permettere di perdere questi appuntamenti. “Mi ricordo che disse: ha già perso”. Alla cerimonia del peso mentre Muhammad Alì si era presentato con un percussionista di New York per omaggiare la madre Africa, Foreman era arrivato con un cane lupo. “Ha già perso” disse Alì “nel cuore ha già perso”. Foreman in realtà partiva da favorito, aveva strapazzato Joe Frazier e Alì contro Frazier aveva perso. Fuori allo stadio di calcio già pieno dove si disputava l’incontro, c’erano migliaia di persone e i ragazzini gridavano “Alì Bumayè, Alì uccidilo, ma non sapevano nemmeno bene perché”.

Alì durante il match fece stancare l’avversario, limitandosi ad incassare colpi. “C’erano quaranta gradi e il novanta percento di umidità”. Alla sesta ripresa Foreman “era cotto”. Così all’ottava Alì partì al contrattacco, con quella famosa sequenza di sette colpi, mandando Foreman KO.

Angelo Dundee lo fece entrare negli spogliatoi

A Kinshasa c’erano mille e cinquecento giornalisti accreditati. Entrare nello spogliatoio di Alì dopo il match fu un’impresa, era letteralmente assediato. Furono aiutati da Angelo Dundee, il suo allenatore, figlio di un emigrato calabrese che aveva cambiato il suo cognome da Mirenda in Dundee perché – come amava ripetere Angelo – in un paese come gli USA “avere nu’ cognome anglosassone” Minà ne imita l’accento calabrese “è chiù conveniente che avere nu cognome italo-americano”. Si erano conosciuti a Roma, durante le Olimpiadi del 1960 ed erano rimasti amici. Dundee fece in modo che la loro troupe potesse passare attraverso la porta dello spogliatoio, mentre urlava “Chill m’è frat a me!”.

Riuscirono ad entrare e Alì come vide il suo amico giornalista disse: “Te ne sei accorto? Questa sera sul ring c’era Allah!”.

Minà a Città del Messico quando Mennea conquistò il record del mondo sui 200 metri

Alì e Saddam Hussein

Alì era capace di mille exploit. Nel 1990, già affetto dal morbo di Parkinson, andò in Iraq da Saddam Hussein e ottenne la liberazione di quindici ostaggi statunitensi che la diplomazia non riusciva a far tornare indietro. “Parlò a Saddam da musulmano a musulmano e fece quello che i politici non erano capaci di fare”.

Mi rendo conto, alla fine di questo resoconto, che la maniera di fare giornalismo che Minà incarna mi ricorda molto Indiana Jones. La sua esperienza possiede quel senso di avventuroso, quella voglia di affrontare le difficoltà perché raccontare quella storia è una cosa urgente, una necessità pressante. Forse è un’immagine eccessivamente romantica, ma in effetti, guardandoci attorno, accendendo la tv, gironzolando su Internet, ci si accorge che quasi sempre ciò che ascoltiamo è superficiale e soprattutto allineato al pensiero comune, noioso, inutile. Non troveremo altro che “tacchi a spillo a rincorrere gente che non ha niente da dire”. Io preferivo Indiana Jones, preferivo Gianni Minà.

fabrizio.livigni@gmail.com

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