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Romanzo napolista / Il viaggio in Albania di Lauro e La Cruz

Diciassettesima puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo napolista / Il viaggio in Albania di Lauro e La Cruz

Ma Egidio caro, voi dovete ragionare. Voi qua fate finta di non capire. Io vi sto dando una buona prospettiva e voi fate le guarattelle. Io vi sto dicendo che noi saliamo sopra la mia nave e in grazia di Dio ce ne andiamo all’Albania a sistemare qualche affare. Lo so che in Albania non ci sta il Napoli, ma guardate che voi laggiù con me fate bei soldi. Scusate, voi siete fascista della prima ora, a maggior ragione dovete essere contento che adesso l’Italia tiene pure l’Albania!

Nella tarda primavera del 1939, con l’Europa che aveva più di un piede già in guerra, l’Italia fascista organizzava le grandi manovre che, in modo più o meno dissimulato, preparavano il terreno alla conversione delle attività produttive nell’economia di guerra. Qualche nave del Comandante contribuiva al ponte marittimo che portava masserizie italiane in Albania, occupata in armi nel mese di aprile, quando al Duce era venuto in mente di dimostrare al mondo che l’Italia era ben capace di mangiarsi una sua Cecoslovacchia.

– Egidio caro, lo so che al Napoli ci tenete assai, ma io che vi devo dire? Questione di giorni e noi stiamo di nuovo qua. Vi perdete la fine del campionato, non penso che morirete. Voi parlate lo spagnuolo meglio dell’italiano, io dove lo trovo di questi tempi a uno che parla lo spagnuolo? E poi a voi vi conosco già, è un po’ che faticate da me, ci sta già una fiducia, come vi debbo dire, so già a chi mi porto. Laggiù io vi dirò tutto quello che dovrete fare, non rischiate niente.

Il Comandante aveva deciso di partire per l’Albania organizzando un carico straordinario con la sua ammiraglia e diceva di volersi imbarcare per proteggere in prima persona la sua nave migliore da rischi di sorta. In realtà Lauro, una volta giunto in Albania, si sarebbe attivato per curare alcuni suoi interessi che l’invasione italiana aveva messo a repentaglio. La corona d’Albania era volata sulla testa di Vittorio Emanuele III e la Grecia, accogliendo il re legittimo fuggito dal suo paese, di fatto si era schierata contro l’invasione italiana. E proprio la Grecia era l’ultima meta di Lauro, che voleva a tutti i costi incontrare l’armatore Aristotele Onassis, per confermare con lui, privatamente, una serie di accordi commerciali sanciti dalle due flotte per la salvaguardia di interessi comuni nel Mediterraneo.

Egidio caro, se io non vedo Onassis, quello mi volta le spalle e con la scusa che l’Italia si è presa l’Albania inizia ad alzare la voce in tutto il Mediterraneo, mi sono spiegato o no? Io con Onassis me la devo vedere da solo, sennò qua non risolviamo niente. Già la settimana scorsa una nave di Onassis, invece di ancorare a Tripoli si è allungata in Algeria. Se io chiedo spiegazioni al comando fascista a Tripoli, quelli sapete che mi rispondono? Mi rispondono: “Egregio comandante, l’Italia non ha bisogno di chiedere l’elemosina a un meticcio mezzo greco e mezzo argentino”. E che se ne fottono loro? Al Duce non gliene fotte niente che Achille Lauro deve levare mano da tutti i porti della Grecia. Loro non ci fanno faticare? E allora ce la dobbiamo vedere noi. Egidio caro, voi dovete fare vedere a Onassis che siete spagnuolo, sempre fascista, per carità, però spagnuolo, un fascista di Franco, tanto quello là sta buono buono alla Spagna e non caca ‘o cazzo a nisciuno. Io vi presento come un mio uomo di fiducia spagnuolo, come persona diciamo così disinteressata, che medierà tra me e Onassis nell’interesse comune. Vi spiego tutto io, non vi dovete preoccupare. E quando avremo messo tutto a posto, Achille Lauro vi saprà ricompensare, non vi preoccupate proprio.

Reginaldo, man mano che il Comandante si insinuava in quegli argomenti per irretirlo nel suo progetto, capendo di essere così necessario al boss, non esitò a stravaccarsi sempre più nella poltrona di pelle in cui era seduto, a tirare fuori dalla borsa il suo Cinzano e a mandare giù sorsi ritmati dalla bottiglia. Quando Lauro ebbe finito con le sue ragioni, La Cruz si alzò in piedi, andò alla finestra con passo incerto, poi si voltò verso la scrivania e disse: “Va bene, comandante! Per la flotta Lauro farò pure il fascista franchista, ma quando tutto sarà finito io farò un altro mestiere per voi”. – Egidio, che volete fare? Il direttore del personale di terra? E io vi faccio fare il direttore del personale di terra. Volete fare il responsabile di bordo sopra le mie navi? E io vi faccio fare il responsabile di bordo. – Comandante, se proprio me lo chiedete così, ve lo dico su due piedi: io voglio allenare il Napoli! – ‘A faccia mia, Egidio! Guardate che uno non diventa bello e buono allenatore di una squadra come il Napoli. Per certi incarichi si deve stare nell’ambiente da sempre. – Se è per questo, si può dire che io ci sto da sempre. Il Napoli aveva tre anni di vita quando sono diventato la sua ombra e poi gente come Attila Sallustro, Willy Garbutt mi ha fatto capire tutto del mestiere. Con me a guidare il Napoli, la Juventus chiuderebbe! – Vabbuò Egidio, mò non esagerate, comunque questo è un altro discorso e non lo possiamo risolvere adesso. – Comunque voi pensateci, comandante! Con Egidio La Croce il Napoli farebbe scintille. Parola di generalissimo! – Mò siete diventato pure generale? – E’ il titolo di Francisco Franco, comandante! – Che bella cosa, che parlate ‘o spagnuolo!

A metà maggio l’ammiraglia della flotta Lauro sbarcò a Tirana. Alcuni giorni prima della partenza, Reginaldo, masticando amaro, aveva assistito ad un vibrante 3-1 casalingo che il Napoli inflisse al Livorno. Stava finendo un campionato mediocre, ma per la prima volta il Napoli si apprestava a chiudere avanti alla Juventus, protagonista in negativo di quella stagione in cui si era iniziato a respirare il vento della guerra e La Cruz, esaltato come se la salvaguardia del vantaggio sulla Juve avesse portato lo scudetto invece di un inutile settimo posto, se ne era partito pieno di frustrazione. Il Comandante aveva un programma preciso: in occasione delle presentazioni di rito presso il presidio militare italiano nel porto di Tirana, avrebbe comunicato che, viste le condizioni di massima sicurezza in cui gli italiani erano in grado di operare, la sua presenza non gli sembrava indispensabile fino al giorno del ritorno dell’ammiraglia. Così, dopo aver riempito gli alti comandi di doni e congratulazioni, avrebbe annunciato di tornarsene a casa con un’altra sua nave, in rada già da una settimana e pronta a salpare per Napoli dopo due giorni. Poi, una volta in mare aperto, sarebbe partita l’operazione-lampo in Grecia: in un punto prestabilito al largo di capo d’Otranto la nave di Lauro avrebbe trovato un altro mezzo da sbarco, con Onassis ad attendere. Il Comandante, con Reginaldo, sarebbe salito a bordo e la sua nave, comunicando a Napoli un’avaria che richiedeva una giornata di riparazioni, avrebbe aspettato il ritorno dei due in un altro punto convenuto, poco più a sud. Ma quando la nave della flotta Lauro affiancò l’imbarcazione greca, da questa un uomo che sembrava essere il capo, in un italiano stentato spiegò che Onassis sarebbe arrivato a Patrasso in serata per incontrare l’amico italiano e di aver ricevuto consegna di scortare Lauro e il suo seguito sulla terraferma. Il Comandante fu molto contrariato, per una questione di rispetto e impegno di fronte agli accordi stabiliti, ma non aveva scelta e salì a bordo con La Cruz, presentandolo agli uomini in divisa del naviglio greco come suo fiduciario nelle relazioni con i porti spagnoli e dell’Africa occidentale. Reginaldo, per quell’incontro di diplomazia sotterranea, si era procurato a Napoli una divisa da capitano di fregata, ma il Comandante lo aveva dissuaso subito, spiegando che, così facendo, Aristotele Onassis si sarebbe sentito penalizzato dalla mediazione di un fascista di apparato. Allora, sembrandogli comunque improprio presentarsi a quella trattativa in abiti anonimi, La Cruz indossò, sopra a pantaloni bianchi, una maglia del Napoli che gli aveva regalato Sallustro.

Durante il viaggio, il comandante greco spiegò che Onassis era stato costretto ad Atene dai suoi affari e che comunque, nel più assoluto anonimato, sarebbe giunto a Patrasso alle ore ventidue a bordo di una corriera di linea. A Lauro la cosa non piacque affatto e disse: “Comunque lui non è venuto a prendermi e io non posso andare ad aspettarlo al capolinea. Facciamo una bella cosa: io vi aspetto a tutti quanti al porto di Patrasso, nell’ufficio della flotta, che a quell’ora sta chiuso e là possiamo parlare tranquillamente. Egidio, voi fatemi il piacere di andare con i signori a prendere Aristotele e poi venite da me, diciamo entro le undici”. Il greco non fece alcuna resistenza.

Domani il Napoli gioca a Bologna, basta un punto e la Juve non ci raggiunge più. Erano quasi le dieci della sera e a Reginaldo, che non aveva una precisa percezione di chi fosse Aristotele Onassis, sembrava del tutto normale starsene lì al capolinea della corriera Atene-Patrasso e pensare all’epilogo del campionato di calcio, in attesa di uno dei più grandi armatori emergenti su scala mondiale, per giunta con un cartone con su scritto “Mr. Onassis”. I greci che erano con lui, lasciato il Comandante, avevano accompagnato il messicano al capolinea quando, all’improvviso, quello che sembrava il capo del naviglio, urlò di non sentirsi sicuro pensando all’armatore italiano che se ne stava da solo e con questa scusa, procurando il cartone a Reginaldo, gli intimò di aspettare Onassis e di non fare scherzi, mentre loro si anticipavano negli uffici di Lauro. La Cruz proprio non sentiva puzza di trappola e, indisturbato, continuava a fare congetture. Il Bologna è già campione, se non gioca per strafare ce lo prendiamo questo cazzo di punto!

In quel momento arrivò la corriera. Appena la gente iniziò a scendere dal predellino, La Cruz mise il cartone in bella mostra e un tipo corpulento, vestito di grigio chiaro, in un istante lesse la scritta del messicano e, nell’indifferenza di tutti, esausti e intenti a prendere il bagaglio, gli saltò addosso, piazzando pugni in faccia e allo stomaco. Ti ho detto che è finita! – urlò quel tipo, senza che Reginaldo potesse fare altro che incassare quelle botte – E’ finita, hai capito? Dillo a quello stronzo del tuo capo che con lui ho chiuso! Diglielo di non mandarmi scagnozzi quando arrivo a Patrasso, perché io ora sto con i professionisti! E giù altre botte. Reginaldo non capiva più niente e intanto il sangue gli scorreva dal naso e dalla bocca. Il boss, vedendo l’auto con i suoi uomini, alzò di peso il messicano e andò verso di loro. Lo caricò sul sedile posteriore, poi salì a bordo e ordinò a quello al volante di tirare la corda. – Capo, e ora che ce ne facciamo di questo? – Non lo so, lo voglio interrogare, aspettiamo che si riprenda e poi vediamo.

Reginaldo, gettato di peso in auto, aveva sbattuto la fronte sullo sportello, svenendo miseramente. La sua faccia era una maschera di sangue e due ore più tardi, riprendendo conoscenza in un capannone semibuio, sentì puzzo d’aceto, capì di essere legato ad una sedia, riaprì gli occhi e vide di sbieco tre uomini davanti a sé. Si sentì la bocca amara e sputò del sangue a terra, poi uno di quelli gli rovesciò addosso dell’acqua. Lentamente rialzò lo sguardo e, in napoletano, domandò: “Che è successo? Che ha fatto il Napoli a Bologna?”

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