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Romanzo napolista / L’incontro col comandante Lauro

Quindicesima puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo napolista / L’incontro col comandante Lauro

Grazie ai buoni uffici del bomber Sallustro, Egidio La Croce ottenne veri documenti d’identità italiani e addirittura una tessera del partito retrodatata al 1922. La trafila fu breve ed agevole, dato che a Napoli ovunque, anche presso i più alti comandi della polizia, la militanza fascista andava di pari passo con la militanza per i colori sociali della squadra di Ascarelli e un commissario che si vedeva inoltrare una richiesta da Attila Sallustro si rendeva disponibile come se avesse ricevuto ordini dal Duce in persona. Così andavano le cose, Attila sapeva che il suo ossequio esteriore al regime, fatto di saluti romani allo stadio e dediche dei suoi gol a qualche gerarca in voga, insieme alla venerazione che la città gli tributava, faceva una miscela esplosiva per spalancare qualsiasi porta e lui, cervello fino, questo potere sapeva gestirlo con intelligenza. Reginaldo non riuscì a farsi restituire la sua artiglieria americana, che ormai era finita nelle mani di qualche sbirro dell’Ovra e allora, forzando la sua diffidenza per l’arma bianca, passò al tanto vituperato pugnale fascista. Prese a seguire le vicende del Napoli giorno per giorno, divenne di casa al campo del rione Luzzatti, Giorgio Ascarelli gli procurò un lavoro nelle sua manifatture e in principio, nelle fabbriche cotoniere, La Cruz cercò perfino di convincere il presidente del Napoli ad attivarsi, presso la Federazione, perché la Juventus  commissionasse le maglie di gioco alla sua impresa. Ma la storia ebbe un altro corso, una dannata peritonite si portò via il povero Ascarelli ancora giovanissimo e due anni dopo Attila, capocannoniere con dodici gol, fu premiato dalla società con una FIAT Balilla nuova fiammante.

Reginaldo usciva spesso con Attila e la sua compagna, la soubrette Lucy d’Albert, la coppia che faceva sognare i napoletani, con loro frequentava il bel mondo, le feste della nobiltà nera di Posillipo e della Riviera di Chiaja, sempre impettito nelle sue divise fasciste, il pugnale e i capelli impomatati. A tutti mostrava con orgoglio la sua tessera del 1922 e, bevendo Cinzano in coppe di cristallo, teneva banco tra gli sguardi adoranti di gentildonne vestite di pelliccia e lunghi fili di perle, con pose da spaccone raccontava che quel pugnale lo aveva brandito ai tempi della pace di Parigi e che quando tanti futuri fascisti ossequiavano il governo Nitti lui era già a Trieste con un pugno di dannunziani a tirar pietre contro le finestre dei partiti democratici che si erano inchinati alla vittoria mutilata. Quando Sallustro, in privato, gli consigliava di non esagerare, il messicano obiettava che in fondo a Tijuana, pur senza saperlo, aveva tenuto una condotta di cui il Duce sarebbe andato fiero e in momenti di particolare ebbrezza iniziava a dire che un giorno avrebbe fatto il grande salto, sarebbe andato a Roma a depositare una memoria dettagliata del sangue zapatista che aveva fatto scorrere e il regime gli avrebbe affidato qualche incarico prestigioso. Ma poi, ogni domenica, in casa o in trasferta, andava sugli spalti col suo Cinzano a patire per le sorti del Napoli e tornava ogni volta a convincersi che un giorno la sua missione sarebbe stata quella di forgiare, da vero duce, un’imbattibile squadra di football.

La canzone napoletana in quegli anni divenne un’altra mania di Reginaldo e in breve tempo, assorbendo la lingua che sentiva in quelle canzoni, allo stadio e in fabbrica, parlò un ottimo dialetto napoletano, sicuro a tal punto di usare la lingua nazionale da convincersi, nei ritrovi di società, che quelli che parlavano italiano discendessero dalle famiglie della Dalmazia irredenta e a loro, quando era già alticcio, cantava i versi di Di Giacomo e Libero Bovio, per renderli in cuor suo più partecipi dell’unità nazionale.

Correvano gli anni dell’assoluto dominio della Juventus, che fu campione d’Italia senza interruzioni dal ’31 al ’35 e in quel regime di monopolio Reginaldo diventò sempre più rancoroso contro la società torinese, spingendosi a gesti ruvidi ed insensati, che volevano essere un modo personale di avversare la Juve. Iniziò per esempio a rifiutare da Attila passaggi nella sua Balilla e un giorno, risvegliatosi da una sbornia colossale, scrisse addirittura al direttore del carcere di Poggioreale, invitandolo a nome della tifoseria napoletana a fornire ai detenuti divise azzurre in luogo di quelle tradizionali, perché così, sosteneva, si sarebbe mandato a Torino un autorevole segnale di sana autarchia. In quel lustro a strisce bianconere La Cruz, onnipresente alle partite degli azzurri, respirò fino in fondo il senso delle parole che Sallustro gli aveva detto quando erano saliti per la prima volta sul Vesuvio, che per i tifosi partenopei battere la Juve è più importante che fare un buon campionato. Nei dieci scontri diretti di quei cinque anni ci fu un solo pareggio, cinque volte passò la Juve e quattro il Napoli. Di lusso furono le vittorie casalinghe per 2-0 nel febbraio ’32, con doppietta di Attila, e ancora nel novembre ’33, ma in particolare restò memorabile la vittoria per 2-1 a Torino nel novembre 1930, quando Buscaglia e Vojak chiusero i conti già nel primo tempo. Quel giorno, allo stadio Filadelfia, Reginaldo era sovraeccitato e, accodandosi a mister Garbutt, andò a vedersi la partita in panchina. Al raddoppio di Vojak una convulsione lo prese e, urlando in messicano ‘carcerati di merda, vi abbiamo fottuto!’, andò a tirare un pugno così forte contro la panchina bianconera da fratturarsi una mano, che da allora non sarebbe stata più la stessa. L’arbitro lo fece allontanare dal campo e i vertici societari deliberarono che, a partire dalla successiva domenica, in casa e in trasferta, Egidio La Croce non avrebbe più potuto seguire il Napoli dalla panchina.

Ma la Juventus era imprendibile e il Napoli non andò più in alto del terzo posto del 1934, stagione in cui fu trascinato da ventuno marcature di Vojak. Nei due anni successivi la squadra si decimò, della vecchia guardia rimasero soltanto Colombari, Buscaglia ed Attila Sallustro, la forza propulsiva dell’utopia di Giorgio Ascarelli, passato il testimone in mano a persone che non sarebbero divenute leggenda, iniziò, dalla passione del rettangolo di gioco, ad esiliarsi, in modo lento e inesorabile, nella memoria antiquaria degli almanacchi. Diede l’addio anche Willy Garbutt, impareggiabile chiave voltaica di un Napoli che grazie a lui si era affrancato dalla minorità di un tatticismo umorale. Erano i tempi in cui l’Italia fascista decideva che il rodaggio era durato abbastanza, era venuto il momento di uscire dalle palestre e portare i muscoli in Etiopia, era la fine di un’epoca e quel vento soffiò anche sul rione Luzzatti, quando lo stadio, intitolato alla memoria di Ascarelli, fu ribattezzato ‘Partenope’ con un decreto modaiolo e antilogista.

Reginaldo, bevendo Cinzano, rimase a guardare gli eventi con entusiasmo, come quasi tutti del resto, senza accorgersi che si era imboccato un binario che, in contemporanea o quasi, avrebbe portato la nazione ad una guerra di sterminio e l’A.C. Napoli in serie B.

Nel 1935 anche la società azzurra, nel suo piccolo, intraprese la sua guerra coloniale: in quell’anno il Napoli fascista cooptò alla vicepresidenza il Comandante, l’armatore Achille Lauro, che l’anno dopo, divenuto presidente, trasferì la sede societaria da piazza Trieste e Trento a via Marina, nel palazzo della sua flotta navale. L’A.S. Napoli, da utopia a partecipazione di massa, di fatto diventava un segmento degli interessi di Achille Lauro. L’umanesimo di Ascarelli era messo in liquidazione e, implacabile, subentrava la rapacità da strapaese del Comandante. Il 16 maggio 1937 Attila Sallustro giocò la sua ultima partita, il Napoli ospitava la mediocre Sampierdarenese e perse 0-2. Quel giorno, spenti i riflettori sulla sua carriera di bomber che incendiava le folle, Attila se ne andò in solitudine sul Vesuvio, a piangere e a bere vino di Gragnano.

Il Comandante Lauro, con il suo fare spiccio e autarchico, piaceva tanto ai banchieri e agli industriali quanto al popolino, che vedeva in lui una specie di Duce napoletano, e piacque subito anche a Reginaldo. Così, in un giorno d’autunno del ‘38, Egidio La Croce, bardato da squadrista e con l’asta di una bandiera azzurra infilata in uno stivale, si piantò fuori il palazzo della flotta. In attesa di attrarre l’attenzione di qualche pezzo grosso, iniziò a distribuire volantini ciclostilati in proprio, irti di strafalcioni grammaticali, inneggianti al connubio tra il Napoli e la società di navigazione del Comandante, che veniva definita la FIAT dei mari.

Reginaldo faceva un gran chiasso e, offrendo i volantini, sbraitava in napoletano che il quinquennio bianconero era stato spalleggiato, foraggiato, spianato dall’ignavia dell’ebreo Ascarelli e dei suoi epigoni e che finalmente era giunto il momento di un’energica riscossa, lottando in nome di un Napoli azzurro ed ariano. La soluzione era già scritta e si chiamava Achille Lauro, perché solo lui, recitavano i volantini con un penoso gioco di parole, avrebbe saputo conquistare il vello d’oro degli agnelli sacrificali, trasformando il Napoli in una flottiglia indomita nelle tempeste. La foga tribunizia di Reginaldo giunse direttamente alle orecchie del Comandante, attraverso le finestre aperte del suo ufficio, mentre era intento a confezionare barchette di carta a strisce bianche e nere. Lauro provò subito simpatia per quello strano tipo che, come lui, stava piuttosto alla larga dalla lingua italiana, e lo mandò immediatamente a chiamare. – Onoratissimo, comandante! – E voi chi siete? – Sono Egidio La Croce, iscritto al partito dal 1922, ariano e tifoso del Napoli. – E che siete venuto a fare qua abbasso? – A ricordare ai napoletani che sta per arrivare il quinquennio del riscatto! – Ma voi faticate? – Faticavo in una filanda semita, ma non ho aspettato leggi razziali per ripulirmi le mani. – E allora fate una cosa, andate dalla segretaria e lasciate nome, cognome e compagnia bella. – Comandante, sono fascistamente onorato di poter… – Vabbuò, vabbuò, mò jatevenne.

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