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Romanzo Napolista / Il destino di La Cruz

Ventunesima puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo Napolista / Il destino di La Cruz

Quando Reginaldo La Cruz giunse in Tessaglia, con la maglia del Napoli sporca di sangue, un cappuccio da condannato a morte in testa e le mani legate dietro la schiena, il Dinamis Football Club non era ancora iscritto a nessun campionato, ma esisteva da un paio d’anni come sfogo ricreativo dei faccendieri di Egeiros Onassis, che la domenica, dopo una settimana passata tra casse di liquori, polvere, pistole e intimidazioni, facevano la squadra e sfidavano qualche altra formazione preistorica di quelle parti. Il livello di gioco era semplicemente miserabile, in porta c’era il siciliano Gaspare che, in omaggio al suo mito juventino, si faceva chiamare Combi, ma la domenica andava a difendere i pali con la lupara che si era portato dietro da Giarre e spesso, quando la palla veniva piazzata a terra per un calcio di punizione, lui la prendeva di mira e sparava. Gaspare era un mago della lupara e i suoi proiettili non sfioravano mai le caviglie di nessuno, quando al campo Gaspare decideva di sparare, lui mirava alla palla e il suo piombo finiva nella palla, che diventava sempre più pesante.

I faccendieri di Onassis non avevano alcun rudimento di gioco e soprattutto non avevano allenatore, loro la domenica semplicemente mettevano palla a centro e diventavano i giocatori del Dinamis contro qualcun altro. Nella totale disorganizzazione, le partite di quelle squadre di oscura matrice non erano dirette da un arbitro, né giocate in campi ben delimitati, né avevano una durata prestabilita, così per ogni cosa si andava ad occhio ed era facile che scoppiassero scazzottate furibonde per un fallo laterale o per convincere gli avversari ad accettare che la partita doveva durare un’altra mezz’ora o che un gol andava convalidato. Si giocava sulla base di ciò che si era sentito dire sul football delle nazioni più evolute e regole che rappresentavano già uno stadio avanzato nella tecnicizzazione di questo sport, come il fuorigioco, il vantaggio o le sostituzioni, nel calcio tessalo erano ancora di là da venire.

Chiaro che, in questo panorama desolato, Reginaldo La Cruz, con i suoi anni di passione alla corte dell’A.C. Napoli sulle spalle, era destinato a vedersi riconosciuta la patente di santone del football. Tanto più quando Egeiros Onassis, saputa la verità sul conto del messicano, prese in gran simpatia e considerazione quel diavolo, accreditandogli un passato rispetto al quale perfino il suo rischiava di impallidire.

Tre giorni dopo il ritorno da Patrasso, Onassis decise che all’ostaggio si potevano slegare le mani e, chiamandosi dietro Gaspare per la traduzione, se lo portò al bar.

Nel paese di Onassis Reginaldo spese il suo primo sorriso proprio in quel bar, quando, colmo di stupore, venne a sapere della disponibilità di Asti Cinzano. Portò il bicchiere alla bocca, notò un sapore molto diverso dal Cinzano italiano, benché le etichette coincidessero, ma gli piacque e continuò a berne per un’ora, un anno, una vita. Ah sì? – chiese Onassis – E’ diverso da quello italiano? Beh, vorrà dire che nel mio Cinzano c’è qualcosa che gli italiani non hanno ancora inventato!

Ben disposto dalla sua inseparabile bevanda, oltre che dalla minaccia di Onassis di ridurlo nuovamente mani dietro alla schiena, Reginaldo iniziò a raccontare la sua storia, partendo dal Messico, e per rendersi credibile sincretizzò a quel tavolo tutti i gerghi della sua vita, traducendoli di volta in volta a Gaspare, smadonnò in messicano contro gli zapatisti, in texano contro i democratici, in napoletano contro gli juventini, al che Gaspare si levò in piedi e, puntandogli contro la lupara, gli intimò maggiore prudenza. Parlò del suo cavallo ucciso in Messico, del Cinzano scoperto poco prima dell’Europa, delle sue passioni italiane, la canzone napoletana, il fascismo, e naturalmente il football, parlò di football, tanto football. Spiegò infine che la storia del rappresentante di Lauro nel Mediterraneo occidentale era tutta una montatura per ben disporre Aristotele Onassis e che, se le cose erano andate così, Lauro doveva essere caduto in un gioco molto più grande di quello che aveva tramato.

Certo che il tuo capo non dev’essere proprio un dritto, – fece Onassis sghignazzando – se davvero si aspettava Aristotele Onassis scendere da una corriera di linea! E alla fine tu, con il ben di Dio della tua esperienza alle spalle, ti sei prestato a fargli da parafulmine! Come hai potuto? Gaspare chiese ad Onassis cosa significasse ‘fare da parafulmine’ e poi finì di tradurre. Lauro aveva buone cose in serbo per me, – fece Reginaldo – mi aveva già promesso la panchina del Napoli. Smettendo di nuovo i panni dell’interprete, Gaspare gli chiese: “E che minchia te ne fai di una panchina, ah?” Reginaldo, nauseato: “Significa che avrei fatto l’allenatore del Napoli!” Ah già! – ribatté Gaspare maneggiando la lupara, prima di tradurre tutto ad Onassis – Tu un figlio di bottana di tecnico, sei!”

Onassis, che già dai discorsi del messicano sul football aveva sentito cose che non immaginava appartenessero a quello sport, quando udì che Reginaldo era candidato ad allenare una squadra italiana di calibro, non ebbe più esitazioni e gli fece: “Tu resti nel mio paese e diventi l’allenatore della mia squadra, da un po’ voglio mettere le cose a posto per iscrivere il Dinamis al campionato e si deve partire da un allenatore. Qui nessuno ne sa niente e quindi sai che ti dico? Che il nostro incontro a Patrasso non è stato casuale, ma l’ha voluto il buon Dio!” E detto questo volle brindare con La Cruz alle pallottole che aveva sparato a Tijuana. Tranquillo, messicano! – fece Onassis – Se stai al mio fianco non ti succederà nulla. Capo! – sbottò Gaspare – Io sono Combi e non mi faccio allenare da uno che stramaledice la Juventus! Se sei Combi – gli fece Onassis, glaciale – lo deciderà il mio allenatore”.

Bevendo Cinzano, La Cruz si godette lo spettacolo di Onassis e Gaspare che disputavano in una lingua che ancora non capiva, ma che presto avrebbe masticato, iniziando una nuova, ennesima vita. Dentro di sé se la rideva di Onassis, pensando che era stato ancor più tordo di Lauro, per come aveva mandato giù la storia del Comandante che lo aspettava per fargli guidare il Napoli e intanto però, sentendosi già allenatore di una squadra, sia pure da tre soldi, iniziava a farsi piacere sempre più quel paese, quel tipo burbero e quel Cinzano dal sapore strano.

 

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