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Un altro modo di leggere la tragedia di Ciro Esposito

Un altro modo di leggere la tragedia di Ciro Esposito

Ci possono essere tanti modi per raccontare la storia di Ciro Esposito e ricostruire i fatti di – ormai – due anni fa, quasi sempre ci si è affidati alla fredda cronaca giudiziaria o a sensazionalistiche ricostruzioni televisive, c’è chi, però, come Flavio Pagano, già vincitore del “Premio Elsa Morante” nel 2011 con Ragazzi ubriachi, ha scelto la strada del romanzo. In Senza paura [Giunti Editore, 13 euro] viene narrata l’altra dimensione – comunque tragica – di questa faccenda, quella dell’amore con tutte le sue gradazioni.

L’amore vero, contraddittorio e sofferto di Bruno, l’adolescente protagonista rimasto orfano di madre troppo presto, verso suo padre Antonio «un ultrà, un malato di pallone, un uomo che vive nella sua folle normalità tutto il degrado cui può condurre un’insana passione per il calcio», troppo assorbito invece da un amore smisurato, travolgente e incontenibile per quei colori, per quella maglia, ma soprattutto per i fratelli di curva.

L’amore protettivo, accudente ed autentico di un nonno – la voce narrante – per un nipote sempre in bilico tra il bisogno e richiesta di calore e la voglia ed il desiderio di poter intercettare la tenerezza di suo padre. Un amore ingenuo, semplice ed innocente quello di Bruno per la sua fidanzata Na’weh «una giovane straniera cresciuta in Italia, che si ostina a difendere la purezza dei valori dello sport».

Nelle quasi duecento pagine del libro in un caleidoscopio di emozioni, grazie a una prosa scorrevole e incalzante, è anche presente il tema – e non potrebbe essere altrimenti – della verità, un qualcosa che «fa sempre paura, perché ha lo stesso gelo, lo stesso rigore della morte» da contrapporre alla bugia che «invece scalda, offre infinite variazioni e possibilità, vie di fuga, rimedi. La bugia ribolle di energia: la bugia è vita».

Può apparire un’affermazione paradossale e incongruente, ma in una storia dove l’illogicità e il controsenso sembrano farla da padrone non è poi così strano. Qui la menzogna continua il suo corpo a corpo mefistofelico con la realtà, nel tentativo ripetuto e reiterato di sfregiare ed offendere un cadavere ancora in cerca di giustizia.

Come si fa a spiegare e farsi proteggere dalla giustizia, se ci affida alla vendetta ritenendo che solo «restituire il male subìto possa ridare pace a un’anima afflitta dal dolore? […] Perché dovremmo preoccuparci di redimere chi compie il male? È una follia: e non è frutto del coraggio né della saggezza, ma della viltà. La viltà di chi è disposto a mentire pur di far finta che la vita sia diversa da quello che è».

In fondo «vediamo e sentiamo quello che crediamo di dovere vedere e sentire; vediamo e sentiamo quello che vorremmo vedere e sentire».

In queste scorribande emotive il calcio e il tifo occupano un ruolo apparentemente secondario, ed è singolare considerando che è da lì che si è originato tutto. Il sostegno alla propria squadra, così come il dolore, è governato da quel sentimento d’irrazionalità difficile da articolare e spiegare, ma che si sostanzia e si rinnova tutte le volte che si varcano i cancelli dello stadio. Spesso però è capitato che questa lucida follia assumesse forme e contorni diverse dall’amore, materializzandosi nel suo esatto contrario: l’odio. Anche questo un sentimento che – portato alle sue estreme conseguenze – si manifesta, si traduce e si presenta nel più tragico dei suoi profili, quello della morte.

È una vicenda in cui «tutti ci guardiamo, perché in fondo tutti sappiamo. È un po’ come quella storia del nostro destino, che tutti conosciamo e facciamo finta d’ignorare», c’è chi preferisce coltivare il dubbio in quanto innamorato della finzione, terrorizzato dall’affrontare la realtà, quale che sia. C’è chi invece non si arrende a verità di comodo e preconfezionate, nutrendo instancabilmente la sua sete e il suo desiderio di giustizia.

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