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Questo Napoli ci insegna molto su cosa significhi essere del Sud

Questo Napoli ci insegna molto su cosa significhi essere del Sud
Sarri e De Laurentiis in una foto di Matteo Ciambelli

Ha molto da insegnarci il Napoli, questo Napoli – con un romano alla proprietà, un signore con accento toscano in panchina oggi e uno con idioma castigliano ieri – su cosa significhi essere del sud. Ci ricorda in primis che tutto parte dalla avida curiosità per la storia dei vinti, quali noi siamo. Dal tempo, dalle guerre, dalle paci, dagli invasori, dai benefattori, ma sempre vinti, coscienti di esserlo, che non cianciano scuse per travestire i propri fallimenti all’ultimo minuto e ricontarsi gli scudetti nello spogliatoio – anche perché quale sarebbe, poi, l’ultimo minuto, e chi il designatore arbitrale, se persino un cronista sportivo del calibro di Quinto Orazio Flacco (“Graecia capta ferum victorem cepit”) riconobbe secoli fa che la si può perdere sul campo al novantesimo ma vincerla con un po’ d’arte in un illogico ed insperato supplementare. Le epistole del poeta latino ci conducono al secondo gradino da scalare per capire il sud: la necessità di una storia di cui scegliere di essere parte, perché essere del sud è una scelta e non un caso fortuito. Una storia di lucida analisi dell’oggi e di qualche delirante visione sul futuro. E il Napoli la storia l’ha costruita quotidianamente: l’ha costruita un presidente, con la testardaggine di chi si ostina a fare i conti della serva che i conti vuole farli quadrare a tutti i costi (visto che i soldi sono suoi), nel periodo di assoluto minimo storico del calcio italiano – per investimenti, infrastrutture, appeal, potenza mediatica, risultati sportivi – e lontani dagli anni delle allegre spese della Prima Repubblica, quando il PIL italiano ricordava quelli di Pechino oggi.

Le vicende di questo Napoli post-fallimento somigliano alla stoffa importante del romanzo d’autore in cui la storia sia provvidenzialmente sfuggita di mano al suo scrittore; così infatti questa squadra sembra in parte essere sgusciata via dal controllo del suo presidente, perché genera un tale indotto, una tale mole di significati, di giochi di specchi, di desideri, di paure mai sopite da travalicare i piani e le volontà del proprio autore. È un intrico che passa per le mani di uno spagnolo che ha negli occhi altri campi, altro calcio, che nella noncuranza che si concede agli stranieri entra in città e infila il dito sulle piaghe giuste, ci fa godere e ci fa ammalare, sveglia le passioni ma anche i fantasmi che le sorvegliano. Poi il racconto, per volontà di un astuto amante dell’azzardo, finisce nelle mani di un apparente sconosciuto, il famoso uomo in tuta. E quella tuta ci ha fregato. Quelle tasche, quelle stoffe acetate, quei mozziconi che sembravano i fratelli poveri delle caramelle succhiate con piglio iberico hanno alimentato il terrore di perdere tutto. Ma le caramelle andavano maturate e mutate in mozziconi.

È la Storia. E noi, che dovremmo essere del sud, adusi alle trasformazioni, alle permutazioni dei giorni e delle parole, alle giravolte lessicali nei nostri vocabolari, alla ciclicità delle nostre stagioni, in quella Storia non abbiamo avuto fiducia fino in fondo. Perché non abbiamo studiato come si doveva il padre della Storia, che è il Lavoro. E nel cuore di questo Napoli, quasi a sorreggerlo, ci sono file interminabili di colonne di lavoro, doriche, eoliche, corinzie, fusti e capitelli che a Orazio sarebbe certamente piaciuto menzionare in qualche suo esametro. Anche perché è proprio questo il senso del sud: scovare l’arte tra i detriti dell’animo, dietro i baveri delle giacche, gli occhiali fuori moda, le frasi non finite. Il sud è il blues, che pure cantò Pino Daniele ma che non abbiamo imparato come dovremmo, perché quel canto di apparenti cafoni del Mississippi rimane la massima nobiltà cui l’uomo di ogni luogo può aspirare, è l’arte che fa risuonare tutta questa storia come una sola corda lontana fatta di lavoro e di cambiamenti e di dominazioni e di fallimenti, ma scintillante di suono. L’uomo in tuta quella corda l’ha saputa far vibrare. Questo Napoli è una melodia coesa ed illogica – in cui sembra che “due persone si incontrino e sappiano di aver vissuto qualcosa in comune, ma non vogliano necessariamente parlarne”, come rispose (grosso modo) Keith Richards una volta, quando gli venne chiesta una definizione del blues. E magari anche del sud.

Orazio, che era nato nel profondo sud lucano, non suonava la chitarra acustica come Richards, ma il disincanto lo conosceva anche meglio di lui e ci direbbe: sì, forse quelli vi riacciuffano. Ma diciamolo adesso, oggi, da campioni di inverno: se pure fosse, questa storia è eccezionale e va cantata, comunque vada. Ogni settimana. Sotto la curva. Si vinca o si perda.

Questa è la classe del sud. Prendere o lasciare.

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