ilNapolista

Il desiderio di rivedere Napoli e il dolore che mi lega a lei

Il desiderio di rivedere Napoli e il dolore che mi lega a lei

Ho desiderato rivedere Napoli, erano mesi che mi trezziavo il ritorno, con la promessa sussurratami da qualche dolce demone che avrei rivissuto, risentito, ripartito. Solo quattro giorni, il tempo di tuffarmi nella malinconia del Natale che va ben al di là di qualunque discorso, solitamente per nulla valido, sulle tradizioni o sui valori. Una festa che si ripropone puntuale grazie al sostegno di un moto interiore che non esige spiegazioni, anzi che le abbatte prima ancora che nascano se non ne riconosce il barbaro garbo di un racconto oscuro a sufficienza da essere inspiegabile, non trova appiglio alcuno nelle diatribe del mondano, della politica o cose del genere, è piuttosto un mito che si vive personalmente e che solo al di fuori della civiltà può unire, solo in un attimo di assurdità creativa che ci renda dimentichi di ogni intelligente intenzione, può essere condivisa. 

Quale momento migliore se non il Natale, questo mi sussurrava quel demone, per godere di quel sottilissimo dolore che fa amare, per assaporare il distacco che diventa onirica rappresentazione di un passato inesistente, abitato da mostri e figure grottesche e da incantevoli perdizioni che lì ho vissuto, nella città in cui sbadatamente un diavolo m’ha gettato. Può sembrare banale, ma è quel dolore a legarmi a Napoli.

E tra quel passato e un chissà di futuro, nel buco nero che li separa e in realtà li contiene, lì ci sono io o qualunque cosa io sia. Riconosco di non essere napoletano per il semplice motivo che non so dove collocarmi, ma senza spocchia alcuna, solo per ammessa inadeguatezza o pigrizia o ignoranza, ma che solo alla sudata foschia mattutina della città che mi ospita dalla nascita, che ho odiato prima di lasciare semplicemente perché percorrere le sue strade era calpestare di continuo ogni personale fallimento e delegarle la colpa di tutto, che ho desiderato rivedere scrutando l’orizzonte di ogni terra straniera, come se fosse il sogno dell’eternità, come se il mare scuro che la bagna si fosse tramutato da paura di un tempo in dolce letto che continuava ad avvolgere il mio cuore, impedendomi di amare altro, punendomi per la mia presunzione di non volerla come patria, solo a Lei mi sento ingabbiato ad appartenerle.

Come potrei vivere senza essere polvere di tufo giallo, senza ricordare certe forme al di là del mare e senza sperare sempre che la voce che resta schiacciata da tutte le nostre indolenze un giorno faccia breccia e ti rovesci come un calzino, mia amatissima e odiatissima Napoli, per estromettere quelle budella che ti rendono testimone del mondo, perché tu, finalmente libera, possa mostrarle come fetente insurrezione, come canto blasfemo.

Appena atterrato e appena prima di staccare i piedi da te, ho ascoltato le note di un napoletano, di una chitarra da giullare, di gabbiani, del freddo del mattino, di un inglese mischiato al tubare dei tuoi piccioni, dell’inquietante tuo sorgere sul fuoco, lì tra Pozzuoli, il golfo, e tutto oltre e io qui per sempre gettato da un diavolo.

Vivo lontano per non diventare un idiota, ma è una mia debolezza. Pochi giorni e un’amarezza che ci separa, eppure saprò sempre dove tornare e sempre che me ne andrò; ma saremo sempre tu, io, i gabbiani e il mare, nelle più ridicole delle immagini o nella più incomprensibile delle unioni.

Sotto forma di animali disegnati male, sono appesi alle spalle di quel barbone che continua nella mia testa a cantare e strimpellare, i mostri che mi popolano e che abbiamo vissuto assieme. Io lo conosco quel tizio, uno dei tuoi spiriti dalla risata sonora e dolorante, e al suo canto affido il mio amore per te, inspiegabile e oscuro.

ilnapolista © riproduzione riservata