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Carmelo Bene: «Il Napoli ha bisogno di un allenatore in campo. Gabbiadini gioca in un non luogo»

Carmelo Bene: «Il Napoli ha bisogno di un allenatore in campo. Gabbiadini gioca in un non luogo»

Carmelo Bene, attore di teatro, di cinema, regista, scrittore, ha effettuato profondi studi sulla lingua, articolandola come un inconscio tramite la scrittura di scena, mettendo fuori dalla scena una incredibile quantità di sue frequentazioni, da Caligola ad Amleto, da Lorenzaccio ad Achille. Calciofilo sui generis, o meglio, come lui stesso preferisce definirsi, senza genere, ha inteso il calcio, e lo sport tutto, esclusivamente in quanto supera lo sport.

Buongiorno Maestro, grazie di aver accettato questa intervista. Per cominciare, potrebbe spiegarci meglio cosa intende per “eccedere il calcio”?

«Cominciamo a fare attenzione alle parole per piacere, non precipitiamo subito nel sociale, altrimenti mi infastidisco e vi rigetto fuori dal quartierino dei classici».

Non ho parlato di nulla che riguardi il sociale…

«Dice maestro, chi è maestro e di chi? E questo chi, poi, prevede un io? Ma no, no, davvero guardi, nessuno è padre ad un altro e un maestro lo si cerca per quella sconcia pigrizia anti patologica di conformarsi, per rientrare nella famiglietta».

Già non la seguo più…

«Va bene, va bene, neanche io mi seguo, sono stato appositamente oscuro, io mi perdo, io sono l’oblio! Ma non pisciamo fuori dal vasino, dovevamo parlare di calcio o sbaglio?».

Per l’appunto…

«E allora parliamo del gioco e null’altro, altrimenti finiamo al solito nulla cadaverico vivente».

Forse già definirlo sport potrebbe aiutare la conversazione

«No, ma per carità; lo sport, vede, è quanto nel mondo è riconosciuto del gioco, è uno scherzo, è adulto in quanto adulterato. Già una volta ebbi a dire che se il mondo fosse un po’ più la visione che noi abbiamo di esso e non il contrario, saremmo tutti un po’ più riservati e si farebbe meno caciara, lo sport è per i gazzettieri e le donnicciole della scorreggia drammatica di stato, per i mediocri, il gioco lo riservo a quel tanto di femmina che mi è rimasto».

Lei, quindi, riconosce solo l’aspetto ludico del calcio, facendone una questione solo femminile.

«Ha detto bene, femminile e non da donna; le donne non sono più femminili, quando anche io ero un cadavere, meno zombie di voi si intende, c’erano forse due, forse tre donne ancora femmine, prima ancora d’esser bambine, come Santa Teresa d’Avila, come l’atto dimentico di se stesso e via, sempre le solite fregnacce. Ma il calcio dicevamo, sì il calcio: il calcio è un gioco, il gioco è importante, è quella innocenza colpevole che non accetta progetti, si sprogetta di continuo. Lei, come quel me che non fui mai, viene dal Sud del Sud dei santi, o sbaglio?».

Non sbaglia, forse un Sud di meno: vengo da Napoli.

«Ah, perfetto. Come diceva Eduardo: come vuole il Padreterno! Ecco vede, Napoli si sprogetta di continuo, è solo atto e mai azione, sempre colpevole, un inconscio articolato come una città. Direbbe Lacan che il significato è un sassolino in bocca al significante ma io mi occupo solo dei significanti e Napoli è quello stesso ostacolarsi in scena di Eduardo, quella continua balbuzie negli abiti che lo portava fuori dalla scena, osceno, dall’etimo per l’esattezza».

Parlare di Napoli mi va bene, ma la prego rimaniamo sul calcio.

«Napoli ha dei talenti che sanno porsi fuori dalla scena, alcuni talenti architettonici e favolistici che con modestia mantengono quel che di magia nera, sporca, santa, rende Napoli quella che è. Ci sono poi calcistiche eccezioni non napoletane che sanno oscenizzarsi, partendo dal campo e ambendo la panchina, come quel Gabbiadini, presente nell’eccesso, nel gol inutile, di troppo; gioca addormentato, coperto da un’aria malaticcia, buia, incomprensibile, come Edberg a tennis, ciondola. Da bambino mi interessavo al calcio giocato, ma tra ulcere e congiuntiviti dovetti preferire il teatro; del resto, non tutto del genio è genio. Quel poco che giocai mi attraversò… sono sempre le cose ad attraversarci e mai viceversa… mi assentai quando capii che è il gol a trovarci e allora non è più calcio, qualunque scugnizzo armato di Supersantos lo sa, peccato poi finisca per esser corrotto e cercare un lavoro. Questo è quanto mi è piaciuto definire l’eccedere del calcio: lo sa Gabbiadini quando non lo sa, non è più lì, è in un non luogo, colpisce la palla, assente ritorna dalla panchina in cui viene, a partita vinta lui fa scattare l’applauso e la gloria, è lorenzaccesco in questo, il proposito che fiorisce dall’esito. Come nel quinto gol al Frosinone: lui compare lì, in un punto immaginario, solo; non ha problemi con le forme sferiche come il resto dello stivalaccio o scarpaccia, zoccolo che sia, no, lui si muove senza palla. Poi, da qualche parte inestendibile dell’aion, lui colpisce un pallone che già nell’attimo forma un arco ed entra… ed è gol, inutile, barbaro, scrosciante di una gloria cominciata già tempo prima, ma che esiste solo ad esito avvenuto».

Mi aiuti a comprendere meglio: eccedere il calcio richiama forse a una di quelle discipline orientali di smarrimento dell’io?

«Nel mio cammino ho attraversato milioni di vite e nella tecnica ho sfiorato di certo qualcosa del Tao, ma non gli darei nulla di più che una similitudine con un abbonamento in palestra, ecco. No, vede, eccedere si deve, anche nell’intelligenza, da sola è miseria, l’intelligenza intendo, bisogna che si abbia una super intelligenza che sfoci inesorabilmente in una santa imbecillità giocosa, così è per il calcio e per il tennis e via dicendo. Io ho amato i singoli, ma ancor di più ho amato le equipes di singoli concertizzanti».

Questo Napoli le sembra qualcosa del genere, o qualcosa che possa divenire un’orchestra di talenti?

«Andiamoci piano: di certo talenti ce ne sono, di certo non ci sono in questo campionato stucchevoli costanti che affidino ogni risultato all’alea, ma se di stucchevole qualcosa rimane è questa Nazionale sotto uno straccio di bandiera, direbbe De Amicis, qualche signora ben poco femminile che si rifiuta di essere al di là dei gazzettieri e dei tifosi. Ma il Napoli dicevamo, sì il Napoli, manca di una figura che resta fondamentale per me: l’allenatore in campo; anche nel cinema, vede, ho sempre pensato che porselo giocosamente fosse essere davanti e di dietro la macchina da presa, questo è mettersi in gioco letteralmente e seriamente. Così è per il calcio, come fu Zidane per la Juve, Boban forse per il Milan. Questo non lo vedo nel Napoli».

Non crede che il carisma di Higuain o la fedeltà di Hamsik, il carisma di Reina possano supplire a questa mancanza?

«Ecco vede, questo è il problema del calcio italiota, tutto volontà e rappresentazione, ma la volontà non porta a nulla di buono: non è di un leader o di un simbolo che il Napoli necessita, non di un Blasi, barbaro fracassatore di ossa, no! Di questi soggetti dovrebbe occuparsene il codice penale, non la federazione, i cartellini gialli e rossi mi fanno ridere, sono inutili; ma di un allenatore in campo, che scenda a giocare».

Mi perdoni maestro, il tempo a nostra disposizione è scaduto, solo un’ultima domanda: pensa che il Napoli sia tra le favorite allo scudetto?

«Ma io i trionfi non li ho mai capiti, servono solo a contenere, e poi io non sono un tifoso, la maglia mi disgusta, magari è anche fetente di sudore, roba da gazzettieri; piuttosto apprezzo il vano e donchisciottesco: campione di inverno, Maurizio Grande scrisse un eccellente libro sulla grandiosità del vano; ecco, se c’è qualcosa che amo è il vano, campione di inverno, così amo il Napoli».

Grazie maestro

«Ora vada, ho ancora da disimparare, ce l’ho ancora con me stesso!».

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