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Una francese a Berlino invidia l’aeroporto di Napoli (storie di luoghi comuni capovolti)

Una francese a Berlino invidia l’aeroporto di Napoli (storie di luoghi comuni capovolti)

I luoghi comuni servono. A essere destrutturati e capovolti, per divertirci a misurare la nostra pigrizia morale e provare ad essere un po’ più liberi.

Forse anche per seguire questo gioco, un giornale tedesco, Der Taggesspiegel, con sede nella capitale, ha affidato una rubrica bisettimanale, dal titolo “Mon Berlin”, ad una giornalista francese di nome Pascale Hugues, che vive da anni a Berlino e da un po’ lascia su queste colonne le proprie impressioni sulla sua città d’adozione. Come se non bastasse vedere sulle pagine di un quotidiano rigorosamente teutonico la penna critica di uno straniero, per giunta uno di quelli che si immaginano con la puzza sotto al naso tipica di quelle zone di mangia baguette, a rendere più amaro il calice il due gennaio scorso Hugues ha scritto un articolo il cui titolo lascia senza fiato: “Neapels Ordnung, Berliner Chaos”, “L’ordine di Napoli, il caos di Berlino”.

Sebbene introduca l’argomento confessando di apprestarsi a un gesto poco elegante ma necessario, la giornalista francese smuove il malumore dei berlinesi e sparge sale su una ferita aperta e sanguinante da anni in tutta la Germania: l’apertura del nuovo aeroporto di Berlino, inizialmente prevista nel 2007, quindi posticipata al 2013, ora probabilmente fissata per il 2017; costo preventivo di 2.2 miliardi di euro, costo finale stimato attorno agli 8 miliardi adesso – domani chissà. Accennatelo ad un qualunque tedesco del sud – sì perché in Germania i luoghi comuni sono l’inverso dei nostri, con il sud ricco e operoso contro il nord(est) indolente perdigiorno – e menzionategli l’aeroporto di Berlino-Brandeburgo. Poi prendete i popcorn e sedetevi in poltrona.

A Pascale capita di passare un week-end a Napoli – una città che lo stereotipo impone agli antipodi di una qualunque metropoli tedesca e che si immagina sommersa di motorini con cinque in sella, di quegli interminabili panni stesi fuori ai balconi, di immondizia accatastata in ogni angolo – provenendo dalla capitale del paese più ricco d’Europa, lustra di raccolte differenziate perfettamente scandite nel tempo, di un codice stradale rispettato alla lettera, di mutande e reggiseni riposti nell’intimità di potenti lavasciugatrici tedesche ad alto risparmio energetico. Fa scalo in aeroporto, e si accorge, all’improvviso, che “Napoli ha cambiato look per attirare i turisti”, ha messo a punto un luogo in cui si può mangiare foie gras e leggere l’edizione odierna di “Le Figaro”, come a Parigi. “Sembra di essere nell’anticamera del Paradiso” scrive ben due volte, mentre decanta i diciotto gradi invernali lontani dai corridoi freddi ed in lamiera dei vetusti aeroporti berlinesi, dove su tutto alberga quella inestinguibile puzzetta di kerosene e pioggia.

A cosa serve un articolo del genere, oltre che a far inviperire i benpensanti? A restituire il senso di gratitudine che si prova verso una città d’adozione e ad allontanare da sé la certezza che le nostre micragnose costruzioni mentali sappiano spiegarci anche solo un granello di sabbia del pianeta terra. Per smantellare le sicurezze che puntellano il comodo ordine mondiale che abbiamo disegnato nella testa, servono esempi che stridano, confronti che ci disturbino, serve che qualcuno ci faccia incavolare. Serve uno straniero, un alieno al nostro mondo che abbia sufficiente curiosità da amarlo, cui si affidi una penna con la preghiera di scrivere di noi senza peli sulla lingua e di riportarci con i piedi per terra.

Se da una parte l’articolo è un grande riconoscimento al lungo lavoro fatto da Napoli nella sua internazionalizzazione e alla capacità di rendere il proprio aeroporto un piccolo gioiello di efficienza e stile in cui non si perde tempo a gridare allo scandalo se assieme a mozzarelle e vini campani si servono anche sushi ed hamburger, dall’altro esso è un buon esempio di libertà e di volontà di lotta contro ogni stereotipo. Immaginiamo noi stessi affidare una rubrica su Napoli ad una scrittrice curiosa di conoscere queste sponde ma non napoletana, anzi proveniente da una città o una storia considerate in qualche modo a noi avverse – una semplice napolista, potremmo dire, magari una napolista juventina, che ci critichi -; immaginiamo di farlo avendo fiducia che dalle sue pagine possano venir fuori gli spunti migliori a porci in discussione e cambiarci. Ad afferrare i luoghi comuni e quel modo un po’ sgangherato che abbiamo di difenderli se ci tornano comodi, e capovolgerli. Sarebbe un modo interessante di cominciare un anno nuovo.

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