È bastata una sconfitta perché partisse il fuoco incrociato sull’allenatore. Tra l’altro, come ci ha tenuto lui stesso a precisare, era una sconfitta ampiamente pronosticabile, per le molteplici ragioni che accompagnano il calcio d’agosto. Per di piú la netta trasformazione dei metodi di lavoro e del modo di giocare, e la preparazione molto intensa hanno consegnato un Napoli imballato, impreciso, appannato.
Di certo c’è che il campionato non finisce dopo una giornata; ma si sa, l’ambiente Napoli, da qualche anno, non conosce la parola equilibrio. Ogni occasione è buona per montare un caso, una polemica, una contestazione. Lo abbiamo visto nei mesi scorsi, tra i piú vincenti della storia del Napoli a parte la parentesi maradoniana; tutto è stato fagocitato, senza la minima riflessione.
Abbiamo assistito, inermi, alla disaffezione dalla maglia e alla trasformazione endemica del tifo, divenuto medium delle piú intransigenti pretese della piazza. Il Napoli adesso è la squadra non piú dei 60.000 ogni domenica, ma quella dei cinquemila abbonati.
Ed è davvero un peccato che, nel momento di difficoltá maggiore del nuovo corso post-fallimento, quello che piú di tutto sta venendo meno è il supporto disinteressato alla maglia. Non si tifa, nella maggior parte dei casi, “Al di la’ del risultato”; anzi, il più delle volte, non si è gioito nemmeno del risultato, mostrando insofferenza anche per le vittorie ed i titoli.
Sarebbe da analizzare in maniera puntuale questo fenomeno, che i pensatori di formazione marxista definirebbero “imborghesimento” del tifo; un ossimoro concettuale, laddove, è nella dimensione ultra-censitaria dello stadio che si sostanzia quel gran miracolo della società europea del novecento, quella compresenza delle più differenti estrazioni sociali, amalgamate in una cerimonia corale di attesa, sofferenza, gioia e quindi amore.
Questa di cui voglio parlare è una mutazione genetica, del tifoso, che da customer affezionato, è divenuto client interessato al soddisfacimento del bisogno primordiale nella societá del consumo, ossia il primeggiare a tutti i costi.
Questo, e non mi stancherò mai di dirlo, tradisce la natura stessa del calcio, in special modo a Napoli, cittá latina, che a dispetto di qualche acuto provocatore, con la logica calvinista del profitto sic et simpliciter, non c’entra nulla; né per storia calcistica (ahinoi, la memoria, anche dei piú giovani come me, è tempestata piú di ricordi sportivamente tristi che di scroscianti applausi di vittoria), né per la conseguente formazione umana del tifo, disposto a riempire uno stadio fatiscente anche e soprattutto nei numerosi periodi di magra del decennio scorso. Latina, come Baires e Rosario, e Montevideo, e Guayaquil, ha scritto le pagine più intense e belle della sua storia con il San Paolo gremito in ogni ordine di posti, un tutt’uno con gli undici in maglia azzurra.
La passione, anche eccessiva e sopra le righe, irrefrenabile e smodata, sta cedendo irreversibilmente il passo all’ atteggiamento snobistico dell’incontentabile a priori, toccato nel profondo non dall’avvenimento sportivo in sé, quanto dal diffidente approccio nei confronti del “padrone”, sempre pronto a complottare e a lucrare sulla “passione”.
Un insopportabile sapore di social-network ha pervaso l’ambiente. Incattivito, pronto ad ergere a re Davide ogni nuovo allenatore, per poi abiurare tacciandolo di connivenza con il potere del presidente Golia, crocifiggendolo alla prima occasione utile, per poi farne aleggiare lo spettro non appena il novello paladino inizi a fallire.
La contestazione alla dirigenza, legittima e assolutamente condivisibile in molti casi, cede il passo alla distruzione del Tempio; e poco importa sostenere la maglia, per il tifoso client. Insoddisfatto del risultato e dell’Inler o del Jorginho di turno, la fischia, perché, signori, Parigi val bene una messa.
Tutto questo, la societá Calcio Napoli non lo ha capito, non lo ha compreso, o fa finta di non vederlo, alimentandolo con i suoi atteggiamenti provinciali di chi se-ne-frega. Male, perché cosí si danno in pasto gli allenatori, i giocatori ed i direttori sportivi all’umoralità della piazza, spesso drogata dalle aspettative presidenziali e da alcuni media altrettanto ostili.
Il biennio Benitez, appena conclusosi con gli strascichi di polemiche fin troppo polarizzate, ci doveva lasciare con un messaggio, sbandierato e mai veramente messo in pratica, l’anno scorso.
Un messaggio di equilibrio e di ritorno all’autenticità del supporto ad una squadra di calcio: Spalla a Spalla.
Purtroppo – e la reazione alla prima di campionato ne è la dimostrazione plastica – per molti non è così. Parlo di quei tanti che a fronte del primo intoppo non hanno trovato di meglio da fare che incolpare qualcuno, attaccare presente e passata gestione tecnica, e stigmatizzare metodi e scelte di lavoro.
Rudi Garcia, un allenatore che in una piazza altrettanto calda, sta resistendo al vertice giá da due anni, ha fatto riferimento alla necessità di restare attaccati alla squadra, per raggiungere gli obiettivi stagionali.
È questa la ricetta, restare uniti. Non sopiti, nemmeno nella contrapposizione aspra alle politiche societarie, ma juntos intorno alla maglia, che è sempre capace di regalare emozioni uniche.
Qual è, se non questa, la mission del tifoso?
Antonio Cecere