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Luis Enrique, un incompetente che non aveva capito il calcio italiano

Luis Enrique, un incompetente che non aveva capito il calcio italiano

Il bello di credersi al centro del mondo è che sei convinto che il tuo metro di giudizio sia l’unico possibile. Oggi la Gazzetta dello sport, con Luigi Garlando, pubblica un interessante editoriale dal titolo inequivoco: “Re Luis Enrique, respinto da Roma e padrone d’Europa”. Un commento in cui inserisce – poche righe – anche Allegri, scaricato dal Milan e inizialmente ferocemente contestato dall’ambiente Juve, ma il cuore è Luis Henrique. Un altro straniero che il calcio italiano ha deriso. Ieri sera a Sky Caressa sghignazzava per la scelta del Real Madrid; gli stessi sorrisini li riservava allo spagnolo ai tempi della Roma. “Ecco un altro fesso”, sembrava dire con quell’espressione di superiorità di chi in fondo non si pone tante domande.

È bello l’articolo di Garlando, anche se avrebbe meritato molto più spazio. Diciamo cinque-sei pagine per raccogliere tutto quel che l’ambiente Roma disse di Luis Enrique. “Passeggiava per Trigoria – scrive Garlando – chiedendosi: «A Brunico i tifosi mi urlavano di far correre i giocatori (vi ricorda qualcosa?, ndr). Perché allora si sono scandalizzati la prima volta che ho sostituito Totti che non correva?». Si sforzava di capire, ma faceva una fatica tremenda: «Se tengo fuori Totti o De Rossi, succede l’inferno. Perché non succede con Curci?»”.

Ovviamente la risposta di chi la sa lunga è fin troppo semplice da prevedere: “Lo vincevo anche io il triplete con Neymar, Suarez e Messi”. Il bello di avere tutte le risposte con sé è questo. Dubbi mai. E in realtà la situazione è un tantinello più complicata. In undici anni di Barcellona, Messi di triplete ne ha messi a segno due: uno con Guardiola, l’altro con Luis Enrique. In questi anni, poi, ci sono riusciti il Manchester di Ferguson, l’Inter di Mourinho e il Bayern. Poi bisogna tornare parecchio più indietro. 

Non è stata una stagione semplice quella di Luis Henrique al Barça dove peraltro non avevano realmente superato il trauma per l’abbandono di Guardiola. Tata Martino aveva portato a casa “solo” una Supercoppa di Spagna superando l’Atletico Madrid. L’asturiano (Luis Henrique è nato a Gijon) è stato due volte sul punto di essere esonerato: dopo la doppia sconfitta con Real e Celta e, soprattutto, dopo il clamoroso litigio proprio con Messi. Non ha fatto da passacarte Luis Henrique, come pure tanti hanno voluto e vogliono ancora far credere. Ha fatto accomodare in panchina (oltre che Messi, nella partita che accese l’incendio) un mostro sacro, Xavi, e ha messo in campo Rakitic, acquistato dal Siviglia su sua indicazione.  

È il modello Barcellona ad aver vinto. Uno stile di gioco, una mentalità che ti inculcano sin da piccolo. Si gioca e si interpreta lo sport in questo modo. È Luis Enrique è cresciuto lì. Il Barcellona lo ha riportato a casa quando aveva ancora un anno di contratto col Celta Vigo. Serviva uno di casa. Come lo era Guardiola.

Il modello italiano ha altri principi. Soprattutto il giornalismo italiano. Scrive Garlando che Luis Enrique aveva provato a rifondare l’impero romano sul principio “Trabajo y sudor”. Figuarsi dalle parti di Trigoria. Scrive ancora la Gazzetta: “Come faceva intendere De Rossi raccontando: «Abbiamo capito che il possesso palla non ci portava da nessuna parte e abbiamo pensato a qualche correttivo». In altre parole: ci siamo rotti del tiki taka, abbiamo scaricato il mister e abbiamo fatto di testa nostra. Ma quel palleggio insistito fino all’ostinazione era un modo per educare una mentalità, per trasmettere conoscenze e sicurezze a una squadra che doveva imparare a vincere. Chi tiene palla, si sente forte. È così che è diventato grande il Barcellona».

In Italia – a Roma come a Napoli – il possesso palla è una perdita di tempo, è indice di scarsità di idee, di mancanza di coraggio. Baldini provò a portare Barcellona nella capitale e ne fu travolto. Alla prima messa in discussione di Totti successe un mezzo terremoto. Per non parlare di De La Peña. Storia fantastica la sua. Arrivò a Roma ufficialmente come secondo di Luis Enrique. Ma il tifoso non dimentica. De La Peña fu laziale, per 30 miliardi, ne guadagnava sette a stagione (all’epoca terzi nella classifica di tutti i tempi degli ingaggi, dietro Ronaldo e Maradona). Un laziale sulla panchina della Roma? Prime contestazioni e finì che di De La Peña non si seppe più nulla. Scomparso. Dalla sera alla mattina. E di aneddoti ce ne sarebbero a decine.

Chi sostiene che oggi a Roma non si parli di Luis Enrique (che tra l’altro ieri sera ha simpaticamente dichiarato di aver fatto felice anche i romanisti) conosce la capitale come era certo del biscotto nel derby. Come in ogni luogo ci sono le fazioni. Ci sono persino gli anti-tottiani nella Roma giallorossa e non sono nemmeno pochi. Di certo a più di un tifoso giallorosso è venuta un pizzico di malinconia. E ieri sera, negli studi di Sky Sport, Caressa non lo ha sfottuto più: il suo livore lo ha riversato sull’altro, quello che incredibilmente va a sedersi sulla panchina del Real Madrid. Che incompetenti questi spagnoli.  
Massimiliano Gallo

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