Dopo la partita di domenica sera, sento e leggo troppi commenti pericolosi sull’epica della sofferenza, sento bussare alla finestra con la sua capillera nera lo spirito di Scarnecchia. E questo mi fa alquanto paura.
Mi riporta al mio primo album Panini, avevo 6 anni, stagione ’82-’83, avvicinato al calcio più dalla vittoria nel mondiale che da passioni familiari. Avevo 6 anni, capivo poco di calcio, allora non c’era la copertura mediatica di oggi. E le notizie sui giocatori per un bambino molto spesso erano più domande che altro.
Quell’anno, le domande che mi perseguitarono per tutto il campionato furono due: la prima, alla quale mi rendo conto di aver dato risposta solo oggi consultando wikipedia (e devo dire che mi accorgo che una certa inquietudine caratteriale che mi accompagna da sempre potrebbe essere legata alla decennale assenza di risposta): perché Pellegrini era III? Terzo di chi? Dov’erano gli altri due? Si trattava di una dinastia? Erano nobili? Potevo stare giorni a guardare la sua figurina e immaginarlo combattere contro draghi alati o tremendi saraceni e al tempo stesso chiedermi dove fossero i suoi fratelli e perché avessero abbandonato Claudio da solo al Napoli.
La seconda domanda era: ma come fa uno che si chiama Scarnecchia a giocare con Krol e Ramón Díaz?
Aprivo l’album e guardavo quella foto un po’ di tre quarti, con quel suo accenno di sorriso, forse più una smorfia dovuta al taglio del sole. E pensavo: ma addo’ jamme? Iniziavo come tutti a giocare a pallone per strada e avevo una certa somiglianza, soprattutto di capigliatura, con Díaz, ma iniziavo a mostrare anche un cristallino istinto da scarparo di difesa. E mentre gli altri mi chiamavano “Ramón, passa!” e io per il ruolo avrei voluto somigliare a Krol, dentro di me, mi sentivo profondamente Scarnecchia.
Lui rappresentava l’ineluttabilità del limite strutturale, l’impossibilità di fare quel salto in avanti, di migliorarsi davvero. Non era colpa sua, ma dell’assurdo effetto fonetico del suo nome su un bambino di 6 anni che aveva visto l’Italia vincere un mondiale con i ben più armoniosi Rossi, Tardelli, Cabrini, Bergomi (ebbene sì, bastava non guardare la foto, e anche Bergomi poteva risultare armonioso).
Ma la figurina Panini di Scarnecchia, che ricordo ancora come fosse ieri, apre un’altra ferita legata all’epica della sofferenza. Quello stesso anno, per la prima e unica volta, mi impegnai in una serrata campagna di completamento dell’album. E arrivai a due figurine dalla conclusione: mi mancavano l’inguardabile Sergio Brio (forse avevano evitato di produrre la figurina per proteggere i bambini, non me ne voglia Brio, però non era proprio l’immagine della salute) e l’introvabile Jorge Caraballo del Pisa. Per un anno intero, tutti, dalla mia famiglia al fruttivendolo, dai compagni di scuola al meccanico di mia nonna, alla mia richiesta disperata delle due figurine, mi rispondevano: “ma perché non le ordini alla Panini?”. No, dovevo farcela da solo e dopo aver vanamente cercato, accettai con orgoglio di perdere con onore, soffrendo, ma epicamente. E mi sentivo bene nel mio stare male.
E al fischio finale della partita con la Lazio, malgrado da anni non viva più a Napoli, ho sentito aleggiare fino alle lande lontane da Fuorigrotta che mi ospitano una pericolosa soddisfazione. Scarnecchia mi è apparso dietro i vetri scuri delle finestre a ricordarmi che qualsiasi speranza, qualsiasi futuro del Napoli, sarebbero stati vanificati dalla sua presenza in campo e naturalmente dall’impossibilità da parte degli altri calciatori di quel “Napoli a metà” di non essere distratti da una domanda durante la paritita: ma perché Pellegrini è III? Terzo di chi?
P.s. Bergomi su Sky è riuscito a far diventare scaramantico anche me: due secondi prima che Higuain prendesse la rincorsa, in un momento che dal punto di vista delle telecronache si è soliti stare zitti, ha dichiarato con un sorrisino sarcastico: “Certo, il Napoli quest’anno ne ha sbagliati 4 su 8”. Voglio le sue sopracciglia sul tavolo, adesso.
Fosco d’Amelio