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Il 3 maggio perdiamo / Il manoscritto sul primo maggio 1988

Una telefonata da Napoli, il primo Alta Velocità per arrivarci. Hanno ritrovato un manoscritto di Maurizio De Giovanni che lo stesso autore avrebbe voluto smarrire. Un figlio abbandonato, letteralmente abbandonato in un cassonetto. Perché è nella spazzatura che l’hanno trovato. Il titolo ha un suono familiare. È “1 maggio 1988”. Si, è questo il titolo del racconto, Primo Maggio 1988. Non è mai uscito. E non uscirà. Perché sono passati appena venti minuti e io ho fatto in tempo a salutare il mio ignoto venditore di scoop che mi telefona un avvocato con un nome che suona un po’ strano. Quando chiama, io sono appena entrato nella camera 324 del Britannique, il vecchio albergo del Corso, fondato dagli svizzeri. Mi piace per quella sua aria da decadenza gestita bene, senza polvere né fatiscenza ma dove tutto parla del passato. E poi da qui assaporo il panorama, da qui posso guardare il mare e lo sto facendo anche in questo momento, perché da questa finestra è come se laggiù verso sud ci fossero nuvole fantasma. Ecco, adesso squilla il telefono. “Buongiorno, parla l’avvocato Azazello” “Non credo di conoscerla” “Lei oggi ha avuto un manoscritto” “E nemmeno credo che la cosa la riguardi” “Mi riguarda e come, e poiché non ho tempo da perdere, glielo dico in poche parole: il manoscritto che ha ricevuto non può essere né pubblicato né citato per passi. Sarebbe meglio non menzionare nemmeno la sua esistenza, perché perfino la semplice citazione la espone a una ritorsione penale, è bene che lo sappia”. “Scusi, ma si tratta di letteratura, fiction, allora non c’è niente di vero. E se un grande scrittore ha prodotto una storia importante…” “Zambardino, lo capisce l’italiano? Lei è vittima del più banale degli errori. Il manoscritto non è di Maurizio De Giovanni, ma di Luigi De Giovanni, un vecchio cronista di sport e di cronaca nera ormai morto, ma che ha affidato a me la cura dei suoi interessi e di questo manoscritto in particolare. Chi l’ha trovato nella spazzatura ha commesso una grave irregolarità nel darglielo, per non parlare del caso che poi lei lo abbia pagato. La rovinerei. Se lei lo pubblica, le togliamo la pelle”. E meno male che è solo la pelle, perché io pagato l’avrei pure, un prezzo-Valentina, nel senso dei tremila che si è presa per dirmi quelle quattro fesserie sul panzone camorrista che aggiusta le partite. I telefoni ormai non fanno più clic. Ma come faccio a farvi capire che l’avvocato ha riattacato? Ha riattaccato. E io resto nella camera 324 del Britannique con un manoscritto unto di spazzatura, appoggiato sul marmo del comò inizio novecento. Una cinquantina di pagine macchiate di sugo di pomodoro, dove però dovrebbero esserci scritte cose esplosive che però non sono opera di uno scrittore noto, no, ma di un omonimo che nessuno ha mai veramente conosciuto. Avrei voluto chiedere se per caso c’entrasse il terzo De Giovanni di mia conoscenza e cioè il filosofo Biagio. Ma qui faccio presto perché è un amico. E un tifoso storico del Napoli. Ma che questa cosa qui non è scritta da lui vengo a saperlo in pochi minuti chiamandolo. Ride, dice “sono curioso, fammi sapere come va a finire”. E poi da quando in qua i filosofi fanno inchieste sulle partite? Quindi il De Giovanni buono è uno solo ed è quello che dovrò imparare a non conoscere e a non citare. Perché è morto, ma prima di morire ha messo il lucchetto alle sue rivelazioni. E perché mai poi? Noi giornalisti vorremmo vivere per sempre nelle storie che raccontiamo”. Va be’, lo scoop può aspettare, io mi faccio una doccia, è fine Aprile ma fa caldo, bafuognesco, un caldo umido soffocante e sono sudato come uno schiavo. Quando dieci minuti dopo esco dal bagno faccio fatica a orientarmi. La stanza è sotto sopra. I cassetti del comò sono per terra, e sono tutti mobili d’antiquariato, legno pesante, fa rumore, come ho fatto a non sentire? Il mio zaino è sventrato da un taglio, anche qui, come ho fatto a non sentire il rumore dello strappo? Sono la schifezza dei giornalisti investigativi, un doccia e mi fottono il pezzo. E peraltro, perché hanno fatto tutto questo senza riempirmi di botte, avrebbe avuto tutto più senso. E adesso che cosa faccio? Ripartiamo da questo Azazello (ma ‘sto nome dove l’ho sentito?), è la mia unica traccia. Chiamo. Segretaria raffinata ma scortese: “L’avvocato è in riunione con clienti importanti (traduzione: tu non conti niente)”. Non so cosa dico, perché sono partito per quelle tangenti di furore che quasi sempre mi procurano reazioni catastrofiche, di rado mi portano all’obiettivo. Stavolta funziona. La segretaria mi dice di andare allo studio. Si vedrà cosa si può fare. Così sono le nove e un quarto di sera quando Azazello, alto come un fuso, occhialino, aspetto impassibile, una vaga somiglianza col sindaco di Torino Piero Fassino, si decide ad ascoltarmi. Poi mi chiede: “Ma lei esattamente cosa vuole da me, visto che le ho detto che non può avere niente e che il poco che aveva gliel’hanno portato via?” Mi annoto nella mente ma non gli dico che io del furto non gli avevo ancora parlato. E però qualcosa devo dire, lo dico, ma sono nervoso, espongo come un pazzo. Ricordo di aver minacciato di raccontare di lui e di quello che mi è successo e del fatto che lui lo sa già e un magistrato che apre un fascicolo in questo paese non si nega a nessuno. Penso di aver fatto un casino. Ma come per miracolo Azazello si decide a dire che mi darà un sunto generico di quello che De Giovanni aveva scoperto. Un sunto che non potrò mettere, mai, fra virgolette. E ovviamente nessun riferimento né al lavoro né all’autore. “Vede, De Giovanni aveva scoperto poco sul piano della rilevanza sia giornalistica che giudiziaria. La traccia dei molti milioni di scommesse, di cui riferisce Marco Travaglio in un suo libro su un importante personaggio del calcio (uh Gesù, com’è difficile indovinare n.d.r.), rimane un’ipotesi di lavoro dei magistrati e una voce che girò molto in città all’epoca. Lui, Luigi, non riuscì a trovare la pistola fumante. Così come l’idea che ci fosse stata una pressione della camorra direttamente su Diego Maradona non è mai emersa con chiarezza e non può essere affermata. Nessuno sano di mente la scriverebbe in un libro, nessuno ci farebbe una causa…” “Avvocato io sono sconvolto da ciò che mi è successo: o lei mi dà una versione realistica di questo casino o io vado domani mattina alle sette dai carabineri con un esposto già scritto. Sarà costretto a farmi uccidere in nottata. Il che, visto quello che è successo nella mia camera, non mi pare difficile da organizzare per lei.” Azazello ride di cuore, poi si fa serio, accigliato e comincia a parlare. Mi punta l’indice contro: “Non si permetta queste insinuazioni. Vede, il mio cliente era in realtà uno squilibrato. Uno che si coltivava di storia di Napoli, ne conosceva pietre, cucina e tradizioni, ma non era amore di conoscenza, era ossessione”. “Avvocato, l’esposto si sta scrivendo da solo” “Arrivo, arrivo. Ciò che voglio dire è che il fulcro degli interessi del mio cliente è la salvaguardia dei pregiudizi su Napoli. La loro sopravvivenza” “E col 1° maggio ’88 e una partita persa per 3-2 cosa c’entra l’ossessione del suo cliente?” “C’entra? E come se c’entra. Come le ho detto, De Giovanni non riuscì mai a trovare prove di un intervento esterno per influenzare il risultato di quella partita” “Avvocato, credo che solo Heidi su questo pianeta pensi che quella sia stata una partita giocata in modo regolare. E la cosa vale per le due partite successive”. “E che prove ha per affermarlo? La sua convinzione errata è il segno della vittoria del mio cliente. De Giovanni volle proteggere dalla diffusione il manoscritto perché le cose che aveva scoperto avrebbero cambiato l’atteggiamento dei napoletani verso la loro storia, almeno quella sportiva.” “Avvocato, santo Cielo (Azazello qui ha un sussulto), mi dice di cosa si parlava in quel manoscritto?” “Semplicemente, Luigi nella prima parte ammetteva che la sua ricerca di prove della combine erano andate a vuoto” “E nella seconda?” “Nella seconda faceva un ragionamento complicato al quale lui è rimasto sempre morbosamente affezionato, sa gli autori si innamorano di quello che scrivono, mica come noi avvocati che siamo i taxi della scrittura” “E cioè?” “E cioè lui era arrivato alla certezza che il risultato era stato determinato dal campo. Il Napoli aveva perso quella partita perché Sacchi era il calcio moderno e voi, nonostante Maradona, eravate il gioco all’italiana ormai al tramonto” “Faccio una fatica molto grande a crederle. E le altre due perché le perdemmo?” E le altre due furono il contagio della città. In pratica i giocatori furono infettati dalla città e dal suo terrore. La paura è come il virus dell’influenza. L’aria era annebbiata dal senso di sconfitta. Se si ricorda, persero allora proprio con una Fiorentina che all’epoca in disarmo”. “Se mi ricordo? Credo che potrei più facilmente dimenticare il nome dei miei figli che quei giorni maledetti. E poi cos’altro scrive il suo assistito? “E poi subito dopo accadde quello che accadde. La squadra riprese ad andar bene, vinse un altro scudetto e prima ancora la coppa Uefa, l’odierna Europa League. Ma…” “L’odierna? il suo italiano l’ha preso dal Tommaseo?” Azazello non sorride più, quasi ruggisce: “Faccia poco lo spiritoso, pennivendolo scalfariano. Sto cercando di dirle che dopo quella sconfitta il pubblico di Napoli mancò l’aggancio con una mentalità moderna: si potevano vincere due scudetti consecutivi. Si poteva essere vincenti e rimanere tali. Si poteva pensare di essere liberi da maledizioni, debolezze, persecuzioni, liberi dai “non ce lo fanno vincere” e tutta quella schifezza là.” “Non parli come il mio analista e mi spieghi perché davvero De Giovanni l’ha fatto?” “Ma non lo vede da solo? Quando il Napoli vinse il secondo scudetto sembrò quasi una cosa scontata, dovuta. Gli anni successivi furono un lungo, inarrestabile degrado, ma i napoletani li vissero come nobili zaristi decaduti. Avevano perso la capacità di stupirsi, di divertirsi, di esultare. Non si divertivano più. Esattamente come adesso. Nel frattempo intere generazioni di ragazzi diventavano juventini e interisti, come criticarli? E ora che la squadra è, diciamo pure, decente, quasi se ne ostacola la crescita. Perché una nuova mentalità sarebbe per Napoli insopportabile. E De Giovanni la vedeva come una perdita di identità. Lui ha impedito che ci fosse un’operazione verità. Ne parlava come di una malattia” “E quindi per allontanarci dalla maledizione di De Giovanni non dobbiamo avere paura? Avvocato, ma lei su quale pianeta pensa che io viva?” “De Giovanni pensava che non avere paura, non essere inseguiti dai propri fantasmi per i napoletani fosse un salto nel nulla, una perdita di se stessi. Ma si rende conto che ci sono quelli che dicono che è meglio rimanere così come siete, brutti e piccoli, piuttosto che essere come i potenti veri, la Juventus, le milanesi, la Roma?” Qui Azazello si alza e fa per infilare l’impermeabile Burberry appeso all’attaccapanni. Non faccio caso subito che con il bafuogno il Burberry è un eccesso dandy. “Avvocato, ancora una cosa” “Faccia presto” “Se lei era il custode del manoscritto e aveva ordine di non renderlo pubblico, perché proprio prima della finale di coppa Italia con la Fiorentina lo si ritrova non nella sua cassaforte ma nella spazzatura, e proprio a portata di mano di uno dei più grandi sciacalli venditori di scoop del paese?” “Perché io ho deciso di farlo ‘intercettare’ da qualcuno. Vede, io penso che sia ora di liberarsi della mentalità secolare che De Giovanni voleva difendere con le unghie e coi denti. Tempo di fare un’operazione verità. Ma…” “Ma?” “Ma se avessi detto le cose che sapevo o avessi mandato il manoscritto a un giornale, a parte che non mi avrebbero creduto, avrei passato un po’ di guai, anche “deontologici” per così dire (la verità, andiamo), qualche riflettore si sarebbe acceso su di me. Forse mi avrebbero ucciso. Non che io tema la cosa, ma ci avrebbero provato” “UCCISO? Ma lei dev’essere pazzo” “Lei crede che la sua stanza sia stata devastata da gente mandata da me e si sbaglia. A Napoli, vede, non ci sono solo i tifosi della Juventus a volere il male della squadra. Ci sono forze potenti, radicate nella città, colte anche se non hanno intellettuali che scrivono – anzi i loro intellettuali scrivono cifre sui computer che operano sulle piazze di Singapore, di Tokyo, di Dubai. Loro hanno bisogno di una città paranoica. Loro hanno bisogno della sfiducia. Loro hanno bisogno del caos dietro il quale muoversi. A loro delle vostre bandiere e del vostro “sordato nnammorato” (mi rendo conto adesso che Azazello parla con un leggerissimo accento tedesco) non importa assolutamente niente. Il ventre nero di questa città non è psicologia. È economia” “Scusi, avvocato, questa storia è credibile come l’esistenza di Babbo Natale” “E perché, è credibile che le stia parlando con un avvocato che porta il nome di uno dei membri del seguito di Satana ne “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov? “Cazzo, non ci avevo pensato” mi sento male, credo. “E questo è il problema dei giornalisti. Che hanno sempre la verità davanti ai loro occhi ma non la vedono. Aspettano che qualcuno venga a raccontargliela e a imboccargliela col cucchiaino”. Mi sono distratto un attimo per trovare la mia giacca. E, inutile dirlo, l’avvocato, più che andarsene, è scomparso nel nulla. Ma strano: l’Azazello di Bulgakov era robusto, a essere uno spilungone alto alto era Fagotto, l’altro dei tre del seguito. Almeno nessun grosso gatto nero ha provato a prendere il tram a via Marina. E non ha provato a pagare il biglietto. Pagare il biglietto, ma che scherziamo, la tradizione è tradizione. Già la tradizione. E il suo incommensurabile peso sulla mente. 6/continua Vittorio Zambardino Avvertenza Le persone, i luoghi, le circostanze riferite in questo racconto possono apparire reali e apparentemente possono aderire a figure e situazioni esistenti. In questa puntata sono addirittura stati fatti i nomi di persone reali, che ovviamente non sono mai entrate a far parte di questo lavoro e sono usate solo come riferimenti narrativi, cosa del resto già evidente nel testo. Inutile specificare, ma lo facciamo per i letterali che sono una brutta razza, che si tratta di un racconto immaginario, che nulla di quanto detto è mai esistito o accaduto nei modi qui riferiti e che ciò che appare come reale è spostato, mascherato, riutilizzato come mattoni vecchi in una costruzione nuova. Inutile quindi provare a riempire gli incavi bianchi con tessere di puzzle di vostra creazione, come potrebbero essere il nome di una persona o di un luogo: non aderirebbero allo spazio creato dal racconto. Nemmeno spingendocele forte. Le puntate precedenti

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