Riccardo, un nome che non si addice a un brav’uomo come Bigon

E’ il nome che stona. Riccardo. Rich and hard, ricco e audace. Valoroso. Potente. Sarebbe meglio se portasse il nome del padre, Albertino, sarebbe più coerente con quei suoi modi eleganti e gentili, con una mitezza che il calcio disconosce. Gli mancava la barba, la barba lo rende avventuroso se non altro nello sguardo. A […]

E’ il nome che stona.
Riccardo.
Rich and hard, ricco e audace.
Valoroso. Potente.
Sarebbe meglio se portasse il nome del padre, Albertino, sarebbe più coerente con quei suoi modi eleganti e gentili, con una mitezza che il calcio disconosce.
Gli mancava la barba, la barba lo rende avventuroso se non altro nello sguardo. A Bigon figlio, la barba conferisce l’aria di un uomo che ama il jazz e disprezza Lady Gaga, due cose che ti rendono fichissimo anche se hai 42 anni. Prima, senza la barba, al massimo poteva portare a spasso una faccia da prima comunione, e con quella non ci fai niente nella vita, specialmente nuotando fra gli squali.

Come si fa a non pensare a lui, a riflettere su di lui, in questi giorni di calciomercato, cioè di speranze, sogni, a volte solo illusioni. Poi uno chiude gli occhi e si domanda come si possa consegnare la chiave delle speranze, dei sogni e delle illusioni a un uomo dallo sguardo buono, quando si sa che con i buoni non si fanno mai bei sogni. Si comincia ribelli e si finisce borghesi. Riccardo Bigon è la terza via. Si trascina l’aspetto di uno che non è mai stato l’uno né diventerà l’altro. Gli manca l’impeto del rivoluzionario ma pure la tranquillità della middle class, nel senso che con lui tranquilli non si sta mai. Il lunedì sera ha preso un calciatore, il martedì si sveglia e non ricorda dove l’aveva messo. Non bisogna fargliene una colpa. È questo il segreto del suo fascino. Lui non c’entra davvero.

Bigon ha la flessibilità gommosa di un cuscinetto, forse anche per questo si sarà fatto crescere la barba. La barba attutisce. Schiacciato sta fra il capo e il grande capo, tra Rafa e Aurelio, lui vive da tenero punching ball al centro del ring. La cosa migliore che gli possa accadere è andare a vento quando non prende un colpo. Eppure non si sottrae. È un brav’uomo. Per questo a Bigon e alla sua figura non si può non voler bene. È come se fra noi lui ci sia sempre stato. È quel signore che gira in molte case napoletane. Si offre, dà una mano, ti abitui all’idea che lui ci sia. Cosa fa, non si sa. Alla fine non importa neppure. Lui scende al posto vostro, si informa, va a fare un servizio. Quale? Boh. Un servizio. Non è di famiglia ma non è un estraneo. Ti paga una bolletta, chiama l’idraulico, se la vede lui. In genere lo chiamiamo ‘O Zi’. Il Wolf di Tarantino risolve problemi, Michael Clayton fa il lavoro sporco, ‘O Zi’ dedica la sua vita all’innocuo. L’innocuo, non il banale. Non è per incapacità, semmai per temperamento. Ogni giorno ‘O Zi’ si alza ed è davanti a un bivio: deve scegliere se votarsi a una quotidianità mansueta o a una mansuetudine quotidiana. Non gli potete chiedere di andare sulla luna, però è bravissimo a miscelare l’acqua calda.

Eppure le ambizioni non gli mancherebbero. Dentro di sé vagheggia grandi missioni. La sua frase preferita è “mannaggia, me lo dicevate a me”. Dopo. Ma un dopo per ‘O Zì esistere non può. Lui vive in un presente docile che si può scambiare per fiacchezza. ‘O Zì non avrà mai il profilo di Harvey Keitel o la statura di George Clooney, al cinema me lo immagino dentro i panni di un Alessandro Haber. È un disertore delle vicende estreme, per dirla alla De Gregori uno che fra vita e la morte avrebbe scelto Rovigo. ‘O Zi’. Non me lo toccate. Il massimo del conflitto che potrebbe reggere è un litigio in fila per il turno: scusate, vengo prima io. Ma forse pure in quel caso leverebbe l’occasione.
Elena Amoruso

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