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Zuzù, perdonami, ti credevo un giocattolo a molla e invece sei un grande giocatore

Ho passato il giorno dopo la partita col Borussia sul Vesuvio per raccoglierne le ceneri più pregiate e cospargermene il capo. Sono il cronista penitente che non aveva mai pensato che Juan Camilo Zuniga potesse essere un giocatore di calcio, piuttosto un personaggio bislacco del suo connazionale Gabriel Garcia Marquez, un tipo strambo di Macondo, il paese fantastico di ogni stranezza e personaggi strani, un giocatore perso nel suo labirinto, come il generale di Marquez. Nato poi a Chigorodo a un passo dal Mar dei Caraibi, verso il confine con Panama. Chigorodo che sembra l’insegna di un negozio di giocattoli. E un giocattolo mi sembrava Zuniga, che Juan Camilo mi perdoni, cui spesso saltava la “molla” per farlo saltare e vincere un dribbling.
Sono qui sotto le ceneri del Vesuvio e mi pento di avere considerato Zuniga un trottolino amoroso, un capriccioso di veroniche impossibili, un infatuato di doppi passi perduti. Quando lo voleva la Juve (e Mazzarri all’Inter) offrendo Matri, l’avrei accompagnato a Torino con sfogliatelle e babà. Ma al Napoli ne sapevano più di me fino ad offrire al ventisettenne ballerino colombiano un contratto quadriennale di 3,5 milioni l’anno più bonus perché rimanesse in maglia azzurra. Ho pensato che al Napoli impazzissero le Folies Bergere.
Zuzù, che cosa mi hai fatto tu? Improvvisamente, in una notte di stelle, cheerleader e pioggia sentimentale, contro i borussi di Dortmund, i watussi del calcio tedesco, i guasconi del dai e vai, i guerrieri della profondità, le trottole della Ruhr, in una serata in cui avremmo dovuto inchinarci alla formazione devastante di Jurgen Klopp, che cosa fai tu, Juan Camilo Zuniga, il mio giocattolo a molla con la molla che si inceppava sempre? Straripi, attacchi, difendi, crossi, rientri, corri. Pennelli il pallone per la testa vincente di Higuain, opponi la testa a un tiraccio di Reus a porta vuota che per poco non te la stacca e conservi la testa. Ma il colpo deve essere stato pesante se, alla fine della partita, della tua straordinaria partita, in cui sei diventato giocatore di calcio, e giocatore sopraffino, tu, Juan Camilo, alzi il tacco della tua scuola di danza sbagliata e fai autogol, un Nureyev autolesionista, una libellula impazzita.
Ma che fa, caro Juan Camilo Zuniga, che conta questo autogol in una partita in cui per me sei stato il migliore in campo, novanta minuti pieni di calcio d’autore, mai un dribbling perso, tanti i palloni messi nell’area tedesca, avanti e indietro sulla fascia senza più le folli invenzioni da circo, senza più quei passettini timidi, indecisi, sconclusionati del giocattolo a molla che eri per me e con la molla rotta. Una notte magica, una notte colombiana, una notte zunighese.
Caro Zuzù, perdonami tu. Eri un funambolo sbalestrato, sei un “esterno” di rara efficacia. Non sei più le bollicine di una gassosa colombiana andata a male. Adesso i tuoi scatti sono tappi di champagne che volano nel cielo di Fuorigrotta. Ballerino che incrociavi le gambe e mi facevi dannare e, mercoledì notte, mi hai mandato in estasi. Forse, ai miei tempi, Robertino La Paz aveva le tue gambe matte, ma aveva il genio nelle gambe. E tu, Zuzù, dai un bacio a chi vuoi tu, ora mi hai conquistato. Vola Colombia e vola Zuniga.
MIMMO CARRATELLI

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