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Non assilliamo Rafa: lo scudetto dopo il secondo posto è cosa rara

Non assilliamo Rafa: lo scudetto dopo il secondo posto è cosa rara

Il pensiero è un sottomarino. Naviga in profondità. Più o meno segue questa rotta: se il progetto Napoli pretende una crescita e se veniamo dal secondo posto, allora stavolta bisognerà andare più su, primo posto, lo scudetto. Ma il pensiero è ingannevole.

Può indurre a giudizi scivolosi, può suggerire passaggi logici che sono avariati (Messi è un calciatore, Gargano è un calciatore, Gargano è Messi). Non è un secondo posto a fare da messaggero per lo scudetto. Non può essere, quello, un indizio certo. Il secondo posto non è Nicoletta Orsomando (oppure se siete più giovani: Marina Morgan, Paola Perissi): non annuncia proprio un bel niente. Un secondo posto non è una stella cometa che promette l’epifania. Basta sfogliare le pagine dell’albo d’oro del campionato italiano per accorgersene. Dal dopoguerra ad oggi, lo scudetto è stato vinto dalle squadre che venivano da un secondo posto per diciassette volte. Soltanto 17 volte su 68. Una volta su 4. Il 25%. Una percentuale che non è certo indice di una tendenza. Per non dire del fatto che non tutte le squadre sono uguali, e dunque non tutti i secondi posti sono uguali: per alcune è un exploit irripetibile, per la Juve è sempre un fallimento (lo dicono loro, mica io).
Il pensiero ingannevole viene da lontano. Arriva dritto dagli anni Settanta. Quando imperava la logica dei piani pluriennali. Quando ci raccontavano che presidenti e allenatori si sedevano a un tavolino e progettavano un obiettivo da raggiungere nel giro di tot stagioni. Glielo consentiva il vincolo: un calciatore era tuo finché lo volevi, dovevi solo ridiscutere con lui l’ingaggio ogni anno, e quando volevi mandarlo via lui non poteva opporsi. Questo consentiva a un Cagliari di tenersi per sempre Gigi Riva, alla Lazio di tenersi per sempre Chinaglia, e intorno a loro di costruire lentamente, progressivamente, una squadra che arrivasse allo scudetto attraverso dei passaggi. E’ questa logica che ci portò a credere che potesse farcela il Napoli di Vinicio: terzo nel ’74, secondo nel ’75. Perciò pensammo che il ’76 fosse l’anno giusto, figurarsi per giunta come ce ne convincemmo quando in estate arrivò Savoldi, che colpo fu Savoldi, 2 miliardi di lire, record dell’epoca, strappato alla Juve che lo voleva, che lo aveva quasi preso mentre noi stavamo già dirottando pensieri e milioni su Gori. Invece no, invece finì come finì. Il passaggio secondo-primo che era riuscito al Cagliari (’69-’70), all’Inter (’70-’71) e alla Juventus (vabbè, la Juventus), a noi non riuscì. Forse proprio perché prendemmo Savoldi e smontammo un meccanismo perfetto.
Se era ingannevole allora, questo pensiero lo è ancora di più  nel calcio profondamente cambiato di oggi. Il calcio acquario. Quello in cui la maggiore porzione del fatturato arriva dagli accordi per i diritti tv. Ricordate il 25% di sopra? Ebbene, nell’era del calcio in pay (che significa ricchezze diseguali e ripartizioni inique, dopo lo svincolo e la sentenza Bosman – con i ricchi sempre più ricchi: 18 scudetti su 20 andati a Milan-Inter-Juve), ebbene, il passaggio diretto dal secondo al primo posto è avvenuto solo 4 volte su 20, una su cinque, cioè nel 20% dei casi. E tre volte su quattro quel passaggio lo ha compiuto proprio la Juve (nel quarto caso fu la Lazio di Cragnotti). Sei volte è arrivata seconda la Roma e mai le è successo di chiudere percorso, progetto e ciclo con lo scudetto l’anno dopo. Così come non è successo al Parma di Tanzi, secondo nel ’97. Ingannevole, alla fine, è forse il pensiero che il calcio italiano sia una questione di progetti. Soprattutto di questi tempi, i giorni dell’impazienza. L’impazienza dei presidenti che divorano gli allenatori, ma pure quella degli allenatori che oggi assecondano le loro ambizioni non più lavorando sulla squadra che hanno, ma provando a cercarsene un’altra che dia loro soddisfazioni più grandi, subito.

Perciò sarà meglio togliersi subito dalla testa l’idea che il prossimo Napoli debba essere quello giusto per tornare a vincere dopo 23 anni. Magari lo sarà, ma non dovremo pretenderlo da Benitez. Non subito. Il paradosso è che nel ’90 riuscimmo a vincere proprio così, passando dal secondo al primo posto, ma come disse Ferlaino a Maradona durante la festa nello spogliatoio “oggi sto pensando che avremmo potuto vincere pure quelli degli anni passati”. In sostanza: non era una squadra “seconda” quel Napoli che vinse l’anno dopo, nel ’90, era una squadra già formata, già vincente, e che poteva finire al primo posto ogni campionato.
Alla fine di tutto, come prova del nove, basta andare di nuovo a sfogliare l’albo d’oro del campionato italiano per vedere quante volte una squadra ha vinto lo scudetto senza essere arrivata fra le prime tre l’anno precedente. Quante volte, diciamo, ha vinto lo scudetto una squadra sbucata dal nulla. Siete pronti? Ventitré volte su 68. Una volta su tre. Nel 33% dei casi. E poi lo chiamiamo progetto.

Il Ciuccio

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