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Napoli-Juventus e il pranzo con i parenti

29 marzo. 24′ giornata.

All’epoca ero poco più di un ragazzino. All’epoca, per seguire le sorti della propria squadra del cuore, se non si riusciva ad andare allo stadio, esisteva solo la radio o il televideo che aggiornava i risultati ogni due ore. All’epoca il Napoli proveniva da una sconfitta immeritata a San Siro e avevo ancora in mente le parate di Zenga e la ciabattata di zio Bergomi che a pochi minuti dalla fine ci castigò. Era una giornata fredda e uggiosa e per i sei giorni precedenti non si parlò d’altro. L’attesa ci aveva divorato.

Ricordo questa partita perché fu l’unica in quel campionato che non riuscii a seguire, né allo stadio, né con la voce di Enrico Ameri o di Sandro Ciotti, né con i segnali di fumo. La beffa delle beffe.

Quella domenica infatti, fu organizzato un pranzo familiare con lontani parenti di cui, almeno io, non ero a conoscenza dell’esistenza, provenienti per lo più dal basso Lazio. Uno di quegli incontri che sono il succo dello studio di un curioso procugino della nipote della nonna della prozia(o giù di lì) di mia madre, che, un bel giorno, decise di costruire un albero genealogico, un cui estremo ramo ha sfiorato distrattamente la mia parentela stretta materna. E sempre questo procugino, dopo anni e anni di derivate, equazioni e temi natale, si era preso la briga di contattare tutte le famiglie sperdute collegate dai rami del suo pino di carta ed organizzare un incontro per conoscersi e riconoscersi. Encomiabile, stimolante, a tratti strabiliante, se tutto ciò fosse avvenuto un altro giorno. No, non quando era in corso la storia. Era il Napoli della prima MaGiCa che nemmeno un funerale poteva distogliervi l’attenzione. Ed era il giorno dello scontro con la storica odiosa odiata.

Mia madre, con quei modi così gentili, a cui non si riusciva a dire di no, esortò me e i miei fratelli maggiori, anch’essi malati azzurri, a non presentarci all’incontro coi parenti, muniti, come poteva essere prevedibile, di radio, walky talky o affini. Non so bene come oggi funziona ma, sempre all’epoca, se il pater familias decideva una cosa, non esistevano ragionamenti o pianti antichi che potessero distogliere, la sua era la risposta definitiva. Resasi inossidabile quando mia madre ci disse: “non sappiamo chi stiamo per incontrare, non conosciamo abitudini e comportamenti, credo che non sia il caso di fare brutta figura con i MIEI parenti che vorrebbero conversare, confrontarsi, conoscere, mentre voi, sicuramente, starete ascoltando la radio. Eviterei anche di parlare di calcio. Non credo che sia argomento d’interesse e preghiamo che vostro padre non si addormenti come al solito”. Amen. Il volere di mia madre diventò legge quando nostro padre ci guardò. Quella finta severità evidenziata nei suoi occhi era in realtà voglia di comprensione. Non ha mai amato il calcio, men che meno, come me, tutte quelle formalità e men che meno conoscere lasche parentele di mia madre. Il pensiero di dover indossare di domenica pomeriggio una giacca, invece delle mutande, e il pensiero di stare a conversare con perfetti sconosciuti, invece di ronfare sulla poltrona davanti ad un film di Totò, rappresentava l’esatta essenza di quello sguardo mascherato da ferrea disciplina. Potevo mai rassegnarmi però? Con quel Napoli potevo mai obbedire? Contro la Giuve? Una di quelle partite imperdibili?
Alla fine non riuscii ad essere ligio e decisi di portare con me la radio dell’olio Cuore a forma di lattina di mais, senza cuffiette e con un’antenna allungabile che recepiva il segnale solo a tratti e mai nello stesso posto. La infilai in uno zainetto. “Qualche raid nel bagno, solo per sentire il risultato” questo era il mio intento. Mentre mio fratello Checco infilava giornali sportivi e l’immancabile Intrepido.

Effettivamente, l’incontro si presentò con tutti i crismi del galateo. Sorrisi sgargianti anemici tra sconosciute cugine di quarto grado, strette di mano impercettibili con proproprozii visti solo in foto e inchini e rimostranze di ogni genere e misura. Anziani signori col bastone accompagnati da generi cui davano del “voi” e una schiera di bambini che solo il bermuda e le bretelle riuscivano a distinguerne il sesso: il caschetto unisex alla Nino d’Angelo dai 6 ai 12 anni era un cult. Quanto ho invidiato l’infanzia dei miei fratelli ricci per questo. Ma poi perché a noi adolescenti facevano indossare montgomery e bermuda appena entrava la primavera? Pure in giornate gelide? Tipo quella? Mah.

Il tutto fu organizzato nella sala da pranzo di un noto albergo della costiera amalfitana. Era fine marzo. Ricordo che faceva freddo, nonostante non avessi più il bermuda (e il caschetto), che pioveva e che il bel terrazzo adiacente alla sala era impraticabile. Non esisteva una via di fuga. Troppi bicchieri e troppe posate sui tavoli, troppi ornamenti floreali, troppe cerimonie da parte del personale. Tutto “troppo”. Il trionfo delle formalità. Non si parlava. Si bisbigliava. “scusa” era l’intercalare di tutti e quella risata falsa che assomiglia a tre colpi di tosse, stile Raffaella Carrà, era il leitmotiv di ogni discussione. Ero seduto al tavolo dei piccoli, nonostante gli altri ragazzini avessero un paio di anni in meno. Lo scarto generazionale con i miei fratelli si faceva sentire in queste cose. Non ebbi un impatto immediato con i miei piccoli commensali e non per la mia rinomata timidezza, bensì per la capacità oratoria di FrancescaMaria. Una dodicenne pulita in viso, ma che parlava e si muoveva come una quarantenne. Gli altri bimbi, seduti, composti e muti l’ammiravano. Lei, un fiume in piena senza argini su quanto fosse brava, bella ed intelligente. Ogni frase iniziava e finiva con “Io”. Insostenibile per un ragazzino quella nenia, decisi di venir meno alla promessa subito, ed andai di corsa verso il bagno con la latta di olio parlante pronta all’uso. Nonostante gli innumerevoli tentativi però, quella infrazione fu inutile. I bagni erano situati molto all’interno del locale e, forse, per questa ragione, un lungo fruscio scoppiettante fu l’unico rumore emesso dalla radio. Ero fregato. Sconsolato, ma non rassegnato, mi diressi tosto verso il tavolo dei miei fratelli per cercare di carpire informazioni sulle sorti del nostro Napoli…
Niente. Ricordo che tutti i ragazzi mentre mangiavano, si guardavano per lo più intorno senza esprimersi, mentre le fanciulle si dilettavano in dialoghi che vertevano sul tempo, la bellezza della costa, la bellezza di Roma e dove si piazzasse l’acca in Pantheon. Mentre altre parlavano di rossetti, fard e dell’autografo di Simon le Bon sul jeans di una di esse. Scuro in viso, giusto per scrupolo, mi avvicinai anche al tavolo dei grandi speranzoso di trovare notizie. Ma niente. Giovani, vecchi e bambini, nessuno che si interessasse al calcio, al Napoli, alla storia che si stava scrivendo. Mi sembrò un incubo. Gli uomini, a parte qualcuno, erano pressoché muti, mentre gli altri conversavano con le signore, tra cui mia madre. Arance, limoncelli, pizze, cozze e mozzarelle. E poi ancora trippa, pajata e code alla vaccinara. Ore e ore a parlare di pietanze e vini, riempiendo l’intera giornata con scambi enogastronomici regionali. E nessuno che mi parlasse di Maradona o Bruscolotti, di Garella o Caffarelli. Ero perso, mi sentivo perso. FrancescaMaria continuava a rapire l’attenzione degli altri con la descrizione del suo bellissimo barboncino, mio fratello maggiore perso nel silenzio mentre ascoltava i nuovi gossip su Eros Ramazzotti e Tom Sellek, l’altro fratello che si era dileguato per leggere giornali, mia madre con un sorriso permanente che continuava a disquisire di caciocavalli e friarielli e mio padre che di lì a poco sarebbe collassato in un sonno profondo dopo aver ingerito chili e chili di cibo mangiato e soprattutto udito. Fuori pioveva e la radiolattina era perfettamente inutile. Sì, ero perso e nell’aria oramai si sentiva solo il brusio continuo delle voci femminili e la sensazione forte di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Mentre però mi perdevo in tali pensieri deprimenti, un urlo, un fracasso ed un altro conseguente urlo calò un silenzio surreale in tutto l’ambiente. Tutti i commensali sembravano pietrificati con il volto interrogativo e girato verso la cucina e da questa non proveniva più alcun aroma o odore. Solo silenzio. Credo che andarono in frantumi centinaia di piatti e quello stato di incredulità generale durò per un tempo indeterminato. Il tempo di ascoltare in lontananza una voce gaudente “Roman, Roman, à signato Roman”. Il parcheggiatore rinchiuso nella sua Alfa 33 con radio funzionante, aveva da poco informato i cuochi della cucina del 2-1 di Ciccio Romano. Nemmeno il tempo di realizzare cosa fosse accaduto, che un roboante boato alle mie spalle, spostò l’aria. I parenti stranieri del bon ton erano in realtà, per buona parte, tifosi del Napoli ed anch’essi non amanti di quelle formalità. Tutti i mariti e tutti i figli avevano avuto le stesse direttive da mogli e madri: potete parlare di tutto, meno il calcio.
Il piano sarebbe perfettamente riuscito, ma purtroppo nel parcheggio la radio acchiappava la frequenza.
Nel giro di 5 minuti, tre quarti degli invitati e quasi tutto il personale (che finalmente si sentì autorizzato) si trasferì dalla sala nel parcheggio sottostante per seguire le ultime fasi di una delle partite più importanti dell’anno. In 5 minuti sono svaniti tutti i rituali del galateo ed un mio procugino (almeno credo) ci raccontò della sua passione azzurra nonostante fosse ciociaro e di tutte le raccomandazioni fattegli dalla moglie prima di partecipare a quel pranzo. Un altro invece raccontò di quanto avesse bestemmiato il fautore dell’incontro che aveva organizzato l’unico giorno in cui non doveva. E così, via via, sino a raccontarci le sforbiciate di Bagni e le speranze per lo scudetto.
Al ritorno in sala, la scena era mutata solo nei dettagli. Le signore con sguardo torvo che continuavano a parlare di ricette, FrancescaMaria, rimasta sola, a raccontare ad uno specchio quanto fosse bella e mio padre nascosto in una piccola sala interna a dormire beatamente su una poltrona. E noi, vecchi, giovani e bambini, con un sorriso a 32 denti, pronti a ballare.
Sì, perché alla fine ballammo sino a notte. Tutti. Uomini e donne (e il personale del ristorante). Non prima di aver visto 90′ minuto ovviamente…
Per la cronaca questo incontro è stato organizzato per i successivi 15 anni (di sabato); FrancescaMaria oggi è una racchia; il cameriere che scassò centinaia di piatti era l’unico juventino. Il Napoli quell’anno vinse lo scudetto. Amo i miei parenti.

Forza Napoli Sempre
La 10 non si tocca.
Gianluigi Trapani

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