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Quando Cavani era il pelato

Dopo aver scagliato il pallone in rete si sbraccia solo per qualche attimo nella sceneggiata di giubilo. Ma già rientrando verso il centro del campo si ricorda di essere un atleta di Dio. Caracolla alzando il dito al cielo e salmodiando versetti biblici per ringraziare il Signore. L’uruguaiano Edinson Cavani, quasi 26 anni, top player del Napoli con una mostruosa produzione di gol (in questa stagione guida la classifica dei cannonieri), è forse l’unico fuoriclasse al mondo a cui la lettera “v” fa venire in mente i vangeli e non le veline.
Nell’immaginario della sua tifoseria, che lo ha ribattezzato il matador, sta raccogliendo lo scettro di un totem come Diego Armando Maradona, la Guida Suprema dei due scudetti conquistati dal Napoli nell’87 e nel ’90. Li uniscono le radici sudamericane e il talento da rabdomanti del gol. Li divide la dimensione tecnica che in Maradona sapeva assurgere a livelli artistici e in Cavani, che segna con più costanza, privilegia la concretezza. Oltre al carattere che aveva fatto di Maradona un leader picaresco, mentre in Cavani fa prevalere l’umiltà e lo spirito di sacrificio.

Lo scarto fra le due personalità diventa ancor più netto nella sfera privata. Maradona ha percorso gli impervi sentieri della trasgressione fino a mettere a repentaglio la salute. Cavani, che coltiva una sottile vena di malinconia, è tutto calcio e chiesa. Non beve, non fuma, ovviamente non si droga, va a dormire all’ora delle galline, è fedele alla moglie Maria Soledad, le rare volte che lo trascinano in discoteca fa il palo della luce. Maradona, in polemica con Pelè, rivendicava con guasconeria di essere il numero uno di tutti i tempi. Fuori da ogni tentazione di divismo, Cavani afferma con fervore evangelico che «è Gesù l’attaccante più forte di sempre».
La religiosità di Maradona poteva essere sfrontata: quando in Messico ingannò l’arbitro segnando di pugno disse che era stata «la mano de Dios». Quella di Cavani è sempre rispettosa e timorata: «Appartengo a Dio perché senza il suo aiuto non avrei superato tanto in fretta i miei due gravi infortuni». Le invettive di Maradona erano caustiche, velenose. Cavani, dopo essersi duramente scontrato con Chiellini, per poco non porge l’altra guancia: «Non è un avversario cattivo, sono cose che succedono».
Entrambi hanno avuto problemi di privacy in una città dall’entusiasmo vulcanico. Maradona per evitare i deliri di folla centellinava le apparizioni in pubblico. Usciva quasi sempre di notte. Anche Cavani compare in centro di rado perché sa che la sua presenza sarebbe una turbativa all’ordine pubblico. È metodico solo nei pellegrinaggi di preghiera del lunedì, quando raggiunge chiese defilate e scelte dopo attente perlustrazioni.

Una devozione così profonda non poteva non attirare l’attenzione della blogosfera. «Cavani», si legge in un commento in bilico fra l’esaltazione e il disincanto, «è una delle dodici incarnazioni di Gesù Cristo. Attualmente si trova a Napoli, nord di Betlemme, dove insieme ad altri undici discepoli cerca di redimere la città dai suoi peccati». L’idolatria che lo avvolge non lo ha messo al riparo dai tentacoli della delinquenza. Nell’estate del 2011 gli hanno svaligiato la villa. Un anno dopo, mentre lui era in Galles con la sua Nazionale, hanno rubato alla moglie un orologio da 18 mila euro (poi ritrovato).
Il presidente Aurelio De Laurentiis disinnescò la crisi di rigetto volando a Cardiff per consolarlo. Un gesto che il matador considerò toccante: «Mi fece capire quanto teneva alla mia persona». L’affetto dei napoletani gli fa superare il disagio di non potersi muovere liberamente nella città che lo adora.
Anche l’autobiografia che ha mandato alle stampe odora di incenso. Fin dal titolo: “Quello che hai nel cuore. Vita, calcio, cuore”. Nasce a Salto, confine con l’Argentina. Viene folgorato sulla via del gol a quattro anni quando, assistendo agli allenamenti del padre Luis (discreto calciatore e poi allenatore), comincia a rincorrere un pallone e a tirare in porta. Il destino italiano è inciso nel Dna.
Il nonno paterno, originario di Maranello, era emigrato in Uruguay ancora in fasce. La prima giovinezza si snoda in ambienti sereni e frugali. «La mia infanzia», racconta con candore, «è stata tranquilla e spensierata, vissuta in modo sano. Ho imparato subito che l’essenza della vita è fare le cose con amore». Un piccolo mondo antico che ricorda la spartanità di José “Pepe” Mujica, l’ex tupamaro diventato presidente dell’Uruguay, che continua vivere nella sua casetta di campagna e devolve quasi tutto il suo stipendio in beneficenza. Il ragazzino Edinson, che frequenta la scuola dei salesiani, viene presto avviato dal padre e dal fratello Walter verso il calcio a cinque.
Cresce bilanciandosi fra sacro (la fede evangelica pentecostale) e profano (il pallone e i pazienti piaceri della pesca). Sul campo lo chiamano il “pelato” (oggi ha una folta chioma, alla Nazareno) perché si è rapato a zero nell’illusione di correre meglio. Più tardi diventa “Er Botija”, espressione gergale che dipinge il suo fisico esile. Dopo i primi provini decide che farà il centravanti. Ispirandosi a Batistuta. Entra nella “cantera”del Danubio, una delle società più blasonate di Montevideo. A 17 anni appare per la prima volta sulle scene italiane, schiantando difese nel torneo giovanile di Viareggio.
L’estate dopo viene offerto al Cagliari per un tozzo di pane. Ma Massimo Cellino, il presidente della società sarda, sottovaluta (o magari non legge) l’entusiastica relazione degli osservatori e lascia cadere l’affare. Torna in Italia per provare con il Chievo e con la Reggina che pure tergiversano. Ne approfitta il Palermo di Maurizio Zamparini che si aggiudica il cartellino per 5 milioni di euro. Anche in Sicilia segna e prega. Ma è discontinuo e a tratti si immusonisce. Triste, solitario ma non final. Il meglio deve arrivare. A suon di gol le quotazioni decollano.
Nell’estate del 2010 De Laurentiis lo porta sotto il Vesuvio per 14 milioni di euro. Lui ricorda ancora con un brivido il giorno della presentazione al San Paolo. «Napoli ha grossi problemi sociali che macchiano la sua immagine. Ma mi ha dato tanto. Mio figlio Bautista, un altro in arrivo, le canzoni, il calore umano, un’atmosfera idilliaca». Con l’allenatore e coi colleghi che pure a volte lo canzonano per la vita monacale, il rapporto è da Nuovo Football Paradiso. «Per i compagni, che sono la mia seconda famiglia, farei qualsiasi sacrificio. E se il mister me lo chiedesse giocherei anche in porta. Perché il Napoli è la squadra che Dio ha scelto per me».
De Laurentiis la scorsa estate ha rifiutato un’offerta di 52 milioni. E lo ha blindato con una clausola recessoria di 63 milioni. Ma il Real Madrid, il Barcellona e il Manchester City continuano a ronzargli intorno. E la sua devozione per il Napoli viene insidiata dalle aspettative del padre Luis che si è lasciato sfuggire: «Il Real Madrid sarebbe la squadra ideale per mio figlio». Edinson si limita ad accarezzare l’idea di un tandem atomico con il sulfureo Balotelli. Senza specificare se al Napoli o al Manchester City. Curioso probabilmente di capire se almeno in area di rigore è possibile conciliare il diavolo con l’acqua santa.
Gianni Perrelli (tratto da L’Espresso, ripreso da Dagospia)

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