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Gianni Brera racconta così il primo scudetto del Napoli

Prima che il Napoli avesse la certezza matematica di esser campione d’Italia, ho ricevuto la lettera di uno storicista napoletano residente a Bologna, Diego Trio. Non avevo mai sentito il suo nome e mai letto nulla di suo. Non so neppure cosa faccia; non stupirei di saperlo docente universitario o magistrato. Certo è di notevole intelligenza, e di cultura in tutto degna della sua intelligenza.

Sentite: “Le scrivo perché avverto in quanto napoletano di dar ordine più concreto a qualche mia idea e ai miei sentimenti circa Napoli e la sua squadra di calcio. Credo che gli accadimenti umani micro o macroscopici siano, obbediscano molto spesso a leggi inesorabili, che trovano la loro lenta genesi nella storia. Ciascuno è figlio non di un padre o di una generazione, bensì di mille uomini e dei secoli che l’hanno preceduto. Ed allora anche i destini d’una squadra di calcio sono iscritti nella storia del popolo che essa rappresenta”.

“Quando si afferma che la conquista dello scudetto ha un valore storico per Napoli, non si è coscienti in realtà di quanto sia profondamente vera questa asserzione. La si limita ad un fatto meramente sportivo e statistico. Ciò è tanto riduttivo da suonare falso. Che il Napoli vinca lo scudetto è un segnale del tutto nuovo, d’una complessità storicamente, socialmente e psicologicamente sconosciuta ai napoletani”.

Seguono considerazioni storiche dalle quali è agevole dedurre la pur complessa e contradditorria psicologia razziale dei napoletani. E poi:

“Fino ad oggi noi non siamo stati capaci di vincere.Forse ne abbiamo addirittura paura come tutte le cose nuove e pertanto ignote. Ma vincere in qualsiasi campo richiede una programmazione, un’organizzazione mai improvvisata, mai casuale. Anche vincere una cosa apparentemente banale come un campionato di calcio. Se il Napoli dovesse diventare campione d’Italia significherebbe che parte rilevante del nostro popolo è riuscita a sconfiggere la rassegnazione, è stata in gradodi ribaltare una condizione, soprattutto emotiva di sudditanza. In una parola, che ha smesso di subire”.

“Questo sarebbe un segno di vitale importanza in una realtà sociale che da secoli sembra ormai destinata solo a una inesorabile e progressiva degradazione. Per contro se il Napoli non dovesse farcela, ciò rafforzerebbe il sentimento di ineluttabile fallimento che alligna come un fantasma nell’animo dei napoletani”.

“Da quanto ho sostenuto mi sembra ormai chiaro che vincere lo scudetto per noi napoletani ha un senso molto diverso che per i milanesi o i torinesi. (…) Vincere una volta, finalmente, per noi significherebbe aver vinto e poter vincere mille volte. I dirigenti, i calciatori, i tifosi della squadra, i napoletani tutti lo sanno bene. Per questo uno scudetto significa tanto. Ma vale anche tanto”.

“P.S. – Mi accorgo ora della lunghezza del mio scritto. Ovemai non potesse perciò essere pubblicato nella Sua rubrica (l’Accademia di Brera, su Repubblica) non me ne stupirò. D’altro canto, io ho scritto a Lei”.

Ho pregato Eupalla

Effettivamente la lettera di Diego Trio è lunga più del doppio di quanto appare oggi sul giornale della sua città. Ho ritenuto mio dovere sintetizzarla perché non ne andasse perduto il succo filosofico, per me davvero prezioso. Ecco, mi sono detto, quando anche la pedata riesce a ispirare certi ingegni, il nostro sport è salvo. La cultura precisa i limiti entro i quali può vivere in sintonia e mai a dispetto della gente che lo esprime.

Nella lettera di Diego Trio – scritta poco dopo la metà di aprile – vi era anhe la trepidazione superstiziosa di chi conosce se stesso e la storia. Perciò mi sono commosso. Da parte mia debbo confessare che, se fossi stato capace di pregare, lo avrei fatto a furor di labbra e di cuore il giorno di Como-Napoli.

Quando il milanese Giunta (dato dal Milan come giunta macellaresca ai miliardi spesi per Borgonovo) ha battuto Garella, io mi sono sinceramente augurato che il destino ed Eupalla non avessero a perpetrare così crudele ingiustizia. Il Napoli era stanco e pareva boccheggiasse. Onestamente, non poteva sciupare d’un sol colpo tutto il buon lavoro compiuto fino a quella domenica grama. Nessuna squadra aveva giocato il buon calcio del Napoli; nessuna con tanta regolarità di rendimento.

Corrado Ferlaino mi aveva spedito un cordiale telegramma dopo il tonfo di Verona. Lo avevo considerato un K.O. quasi provvidenziale, in quanto evitava di acchito le molte botte che toccano al pugile sconfitto ai punti. Poi è venuto il Milan al San Paolo e l’Inter, sbolinata la sua parte, aveva a stento battuto la Fiorentina.

Si sono detti i tifosi dell’Inter: “Il Napoli è migliore e merita di vincere lo scudetto: però, nel caso che lo buttasse, noi saremmo qui pronti a riceverlo”. Visto come incalzava la Juventus, era anche presunzione, però fondata sull’onestà.

Gli interisti si sono viziati in molti anni di supremazia: non hanno mai visto giocare bene la loro squadra. Lo stesso Altobelli, che stupiva per certe realizzazioni in area e da fuori, lasciava perplessi per la sconocchiata natura dei suoi gesti. Personalmente ho sempre scritto e parlato dell’Inter con una schiettezza che i miei concittadini non hanno mai considerato irritante. Erano d’accordo: la squadra non poteva considerarsi da primato. Meglio dunque che vincesse il Napoli. Era espresso dalla sola grande città protagonista il cui nome non figurasse ancora in un libro d’oro. Con il necessario cinismo, preciserò che, non avendo mai vinto, Napoli non era né invidiata né detestata dai milanesi, molti dei quali (vedi Deltaplano Zenga) hanno radici napoletane.

Il valore della critica

Ho premesso volentieri le partecipi e chiare parole di Diego Trio per non destare il minimo sospetto di esser caduto in piaggeria.

Ho imparato in tempo a conoscere i napoletani. Della loro città sono sempre disposti a dire corna, mai però a sentirne e questo, se mi si consente, è umano ma anche abbastanza astruso.

Un tempo Napoli era fuorviata da una critica pedatoria fondata sulle nuvole. Le frequenti cadute in Serie B erano quasi sempre da ascrivere a mania di grandezza (che si traduceva in tattiche insane). Poi la critica è molto migliorata. Su questo giornale scrivono colleghi che stimo e di un paio sono amico. Il fatto che un italianista come Ottavio Bianchi abbia potuto esercitare con la solidarietà di quasi tutta la critica napoletana è di per sé straordinario.

Gioco corto ed armonioso

Bianchi ha patito con orgoglio alcuni sgarbi superati cammin facendo, a furor di risultati. Corrado Ferlaino, che conosco da tempo come un signore capace di dominare i propri sentimenti, non ha mai intralciato il lavoro dei suoi tecnici. Ha investito su Maradona venendo ripagato da lui e dai suoi compagni, sempre animati da giusta emulazione. Ho visto il Napoli giocare corto con perfetto sinergismo di reparti e di singoli mai e poi mai avulsi dagli schemi.

Che io dopo Udine abbia tifato per Napoli è abbastanza singolare ma vero. Il destino – mi dico – non può essere sempre carogna, e che l’uomo ne sia fabbro cosciente appartiene alle balle storiche. Gli astri vanno secondati, questo è un fatto, e il Napoli ha saputo secondarli senza il minimo segno di jattanza, con la sicura calma che viene dal sapersi più forti. Yo triumphe, Napoli. Ne riparliamo l’anno venturo.

Gianni Brera (inserto del Mattino per il primo scudetto)

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