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Una delle cinque trasferte più disastrose della mia vita da tifoso

Statisticamente, in ogni stagione, c’è sempre una trasferta che si fa ricordare per i disastri che produce.

Ecco, la situazione climatica al limite e la concomitante sconfitta degli azzurri hanno piazzato di diritto quella di ieri a Genova nella top down five della mia carriera di tifoso.

Eppure, per evitare di morirci a Marassi, mi ero preparato come si conviene. Le previsioni mi avevano avvertito e l’abbigliamento è stato impeccabile, o quasi: gambali da paludi della Foresta Nera, due paia di calzini anti-gelo, jeans, maglietta della salute, camicia(di forza), due maglioni di lana merinos, giubbotto anti proiettili, sciarpa, guanti imbottiti e cappello molto simile ad un passamontagna. Roba da baita, altro che stadio.

La mattina, nel treno che da Milano mi ha portato nella città della Lanterna, i miei compagni di vagone, vedendomi imbottito in quel modo, mi hanno chiesto addirittura in quale località sciistica mi stessi recando. Stavo andando a vedere il Pocho o Zurbriggen? E il paesaggio circostante, molto più simile alla Groenlandia che alla Liguria, mi ha fatto pensare che all’arrivo in stazione ad aspettarmi avrei potuto incontrare qualche pinguino o un paio di yeti. Mentre il meteo e le ultime notizie lette da internet mettevano persino in dubbio il regolare svolgimento della partita. Sono così giunto a Genova preoccupato e quasi spaventato, ma per fortuna, in città, a parte la temperatura polare ed una leggera e fastidiosa pioggerella, la neve era presente solo sui colli ed ho capito che la gara si sarebbe disputata anche senza sale o macumbe.

La strada sino al campo era deserta e nonostante il già citato abbiglio, le mani, i piedi e la punta del naso, richiedevano tappe continue e rigeneranti ad ogni bar aperto. Visto l’andazzo, più di pesto e focacce, sarebbero state più opportune polente e crauti, ma ho cercato di rinfrancarmi con la birra e un paio di grappini. Ma non è bastato.

Sono entrato allo stadio un’oretta prima dell’inizio perché avrei rischiato un’ubriacatura a furia di riscaldarmi con la birra ma, nonostante il settore ospiti fosse stracolmo, il vento gelido ci ha tagliato a fette, anestetizzandomi in meno di 5 minuti. A mala pena riuscivo a muovere il collo volontariamente, mentre il resto del corpo si cimentava in persistenti tremolii prodotti da brividi inconsapevoli.

Solo dopo l’ingresso dei nostri ragazzi e i saltelli anti-doriani hanno dato qualche piccolo segnale di risveglio alle mie gambe atrofizzate, ma è durato poco. La speranza che a riscaldarci poteva essere qualche piroetta del Pocho o una fiammata di Pandev, ben presto s’è dissolta insieme alla neve che ricopriva le colline circostanti. Il primo tempo è stato da tormenti. Ho inveito contro tutti. Noi lì, in quello spicchio di stadio, ibernati a gridare come gli ossessi e loro in campo a giocare alle belle statuine addormentate: Zuniga ancora col pigiama, Cannavaro che sbadigliava, Campagnaro a contare le pecorelle, Dzemaili col cuscino sotto il braccio, Hamsik un sonnambulo, Dossena in camicia da notte, Britos con le babbucce, e gli odiosi Sculli e Rocchi a rendere il gelido giorno sempre più in un incubo della notte. Ho salvato solo Gargano dalle bestemmie che praticamente correva per tutti. Nel secondo tempo qualcosa è cambiato, mentre ormai si saltava e si applaudiva non per incitare, ma solo per cercare di creare un minimo di conforto al fisico. La squadra ha cambiato modulo ed anche il piglio. Qualcuno s’è svegliato da quell’assurdo torpore e qualcun altro ha continuato a dormire sonni tranquilli e, mentre si cercava di recuperare il doppio svantaggio, ecco la doccia gelata, come se non bastava: Palacio da posizione defilata ci ha infilzato per la terza volta. Qualcuno, non potendone più, ha alzato bandiera bianca abbandonato gli spalti, mentre il bambino seduto accanto a me, travestito da peluche, mi chiedeva: ma adesso pareggiamo? Non ho avuto il coraggio di rispondere e non perché la lingua si fosse completamente atrofizzata, ma per lo sconforto.

Poi, l’ultimo quarto d’ora. Per un attimo ho creduto nel miracolo. Due gol in un minuto ed ancora il tempo necessario per completare una rimonta che sarebbe stata il giusto premio per chi, come me, era lì a schiattare bramando un caminetto o una damigiana di birra o di vino cotto. E invece, sebbene ci fossero ulteriori 5 minuti di recupero, il Napoli non è riuscito ad affondare il colpo risolutore producendo uno stato depressivo che combinato alla bora, mi ha letteralmente annichilito.

Il ritorno a casa, nello stesso treno dell’andata, è stato da puro masochista. Nel leggere le pagine del web dedicate alla nostra squadra, ho avuto un sussulto che non mi ha scrollato di dosso quel freddo che ancora ora permane, ma ha terminato di surgelarmi. Processi e contro-processi nei confronti di Mazzarri, De Laurentiis, Bigon, il mercato, ecc ecc. Ma stavolta questa sconfitta, a differenza delle altre, la imputo solo ai calciatori. Ieri si poteva giocare con qualsiasi modulo o schema, e non è stato un problema fisico perché la squadra al novantesimo correva il doppio del modesto Genoa, ma se dormi e non ci credi, il risultato non puoi raggiungerlo. E ieri, i nostri, a parte Gargano, hanno marcato gli avversari sistematicamente a 5 metri. E se nel calcio, oltre la tecnica, contano le gambe e la testa, ieri è mancata la caratteristica che tante volte ci ha salvato e contraddistinto: il cuore.

Quello che noi tifosi mettiamo sempre, seppur, il freddo, questa trasferta e questo Napoli, ci hanno fatto gelare.

Forza Napoli Sempre e onore ai Grifoni. 30 anni di gemellaggio restano una delle cose più belle del nostro calcio.

La 10 non si tocca.
Gianluigi Trapani

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