Ci sono i tifosi di cuore e i tifosi di testa
Sere fa mi chiama Massimilano Amato: “ho partecipato – mi dice – alla presentazione di un volume fotografico che racconta, con immagini inedite, la nostra passione; con me c’era Canè; gli ho parlato della vostra iniziativa e si è fatto un sacco di risate”. Si, Canè; Jarbas Faustinho Canè è arrivato a Napoli nel 1962; […]
Sere fa mi chiama Massimilano Amato: “ho partecipato – mi dice – alla presentazione di un volume fotografico che racconta, con immagini inedite, la nostra passione; con me c’era Canè; gli ho parlato della vostra iniziativa e si è fatto un sacco di risate”.
Si, Canè; Jarbas Faustinho Canè è arrivato a Napoli nel 1962; leggenda vuole che fosse stato scelto, in foto, dal Comandante perché così brutto che avrebbe spaventato gli avversari; in realtà Canè non era affatto “brutto”, era solo nero di pelle, un colore che contrasterà presto col quello dei capelli che, in pochi anni, diventeranno brizzolati; ed era anche un buon calciatore. Entra da subito nel cuore dei tifosi per l’impegno, per la passione che ci mette, per le “bombe” da fuori che spesso colpiscono, facendoli rotolare comicamente all’indietro, i fotografi appostati, su piccole panchine, ai lati delle porte. Diventa napoletano, sposa una napoletana e come molti napoletani è costretto anche ad emigrare (Bari); concluderà la sua carriera nel Napoli “furente” di Vinicio, regalandoci ancora gol ed emozioni e le sue corse sotto la curva, a braccia alzate.
A lui è dedicato lo striscione più bello della nostra tifoseria, ripreso addirittura da Fellini in un suo film. È proprio così che abbiamo voluto dar nome ad un gruppo di facebook (Didì, Vavà, Pelè site ‘a guallera ‘e Canè), in ricordo di un’epoca in bianco e nero, dove ci si accontentava di qualche rara vittoria con le grandi, di piccole emozioni allo stadio, di storie semplici, ma appassionanti, come quelle di Jarbas, di innocui sfottò.
Tifosi di un Napoli amato a prescindere, per un insieme di sentimenti, ricordi, emozioni, amicizie, trasferte ma anche di lacrime per le (molte) retrocessioni o per i (pochi) trofei strappati agli avversari; lo specchio, cioè, della nostra identità che, per la mia generazione, va dalla guallera di Canè al Kitemuort di Parma, dal gol di Boccolini all’autorete di Ferrario, dallo Sport Sud al Napolista.
Oggi, però, battere sistematicamente le grandi del campionato, stare in classifica nei piani alti, giocare in Europa, e confrontarci da protagonisti con gli squadroni dell’intero continente, non basta; ci vuole la partita “perfetta”. Beh, questa della partita con gli inglesi da criticare comunque perché Aronica ha sbagliato un rinvio, perché non l’abbiamo chiusa, perché l’abbiamo vinta grazie ad un gioco che all’estero non conoscono – con tutto il trito e ritrito di commenti sulla difesa a tre, le squadre che al S. Paolo si chiudono, la panchina corta, i cambi non fatti, o quelli fatti ma sbagliati, e quant’altro – ancora non l’ho digerita (eppure son passate un paio di settimane); è un affronto alla verità dei fatti. Ora abbiamo anche vinto al Madrigal e siamo tra le prime sedici squadre d’Europa; e mi astengo dalla “retorica” del passaggio dalla C alla Champions, dal Licata al Bayern, da Toledo, che sparava palloni sui balconi delle case addossate ad improbabili impianti di calcio, al tiraccio di Inler a Vila Real; tanto è inutile.
È che oggi siamo tutti tifosi, anche i criticoni, certo, ma tifosi di “testa”; noi eravamo, e siamo, tifosi di “cuore”.
Mimmo Taglialatela