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Io, lavezziano, rimembro ancora quel giorno all’Olimpico

Raccolgo l’invito di Max sulla giocata del Pocho che ognuno di noi ricorda. E ne approfitto per riproporre un articolo che scrissi per il Riformista di domenica 26 ottobre 2008. Quel giorno io e Max andammo all’Olimpico e il Napoli vinse uno a zero. Autogol di Siviglia. Propiziato da chi? Indovinate un po’. E’ stato al minuto trentaquattro del secondo tempo. Marek Hamsik ha agganciato la palla, si è girato e ha tentato di chiudere il triangolo con Christian Maggio, già arrivato sul limite sinistro dell’area di rigore. Il bianconero Dario Knezevic ha intercettato il pallone facendolo però carambolare sulle cosce di Ezequiel Lavezzi. Il numero sette del Napoli ha fatto quattro passi e infilato Alexander Manninger di destro. Gol. Due a uno contro la Juventus. È stato poco dopo le ventidue di sabato 18 ottobre che allo stadio San Paolo Ezequiel Ivan Lavezzi detto el Pocho ha legato il suo destino personale a quello di un popolo. Nell’epica del calcio, a Napoli era accaduto solamente con Diego Armando Maradona. Pure con lui il colpo di fulmine iniziale divenne amore vero grazie a un gol memorabile contro la Juventus, la madre di tutte le partite per i tifosi napoletani. Era il 1985 e pioveva. Dentro l’area di rigore, dal versante destro, Maradona inventò un calcio di punizione sovvertendo ogni legge della fisica e battendo un attonito Tacconi. Ezequiel Lavezzi non è Maradona e non lo sarà mai. Ma questo ragazzino argentino di ventitré anni nato sulla riva occidentale del Paraná, a Villa Gobernador Galvez, è il nuovo eroe pedatorio di Napoli che sta conducendo le moltitudini indistinte di lazzari e rivoluzionari del ’99 fuori da un tunnel lungo tre lustri di rimpianti. Dal maradonismo al post-maradonismo. La storia che finalmente smette di essere nostalgia infelice e diventa serena memoria condivisa: el Pibe de oro ed el Pocho. C’è posto per entrambi nel cuore dei tifosi napoletani. Ognuno con le sue caratteristiche e i suoi limiti. Senza comunque dimenticare le coincidenze. Della Juve si è detto. Poi c’è che Lavezzi è stato acquistato dal Napoli di Aurelio De Laurentiis e Pierpaolo Marino il 5 luglio 2007: cinque milioni e mezzo di euro versati al club boarense del San Lorenzo. Ventitré anni prima, il 5 luglio del 1984, Diego Maradona fece la sua prima apparizione trionfale al San Paolo davanti a settantamila spettatori che pagarono mille lire a testa solo per vederlo un paio di minuti, giusto il tempo di un pallone calciato per aria a centrocampo. A dire il vero, Lavezzi in Italia c’era già stato nel 2005. Lo prese il Genoa. Poi, però, la squadra di Preziosi venne retrocessa dalla B alla C1 per illecito sportivo e il Pocho tornò in Argentina. Quando sbarcò a Napoli dissero che era grasso. In ritiro non impressionò per nulla. Gli scettici furono costretti a rimangiarsi critiche e perplessità già a metà agosto: contro il Pisa, Lavezzi segnò una tripletta, la prima di un giocatore del Napoli dopo quattordici anni. Da subito il Pocho mise in luce le sue qualità di trequartista anarchico cui piace spaziare da destra a sinistra e viceversa. E solo il tempo dirà quanto le sue funamboliche serpentine siano questione di genio o di talento. Lavezzi è uno che prende la palla e parte. Anche con qualche chilo di troppo e quell’incedere barcollante, quasi da ubriaco, che pensi stia per cadere da un momento all’altro, il Pocho sorprende avversari e pubblico per la sua capacità di fiondarsi avanti con grande facilità. Segna poco, Lavezzi, ma quando lo fa per lui non c’è differenza tra piede destro e piede sinistro. L’anno scorso, in campionato a Udine, Lavezzi scartò e rientrò di destro e poi calciò di sinistro, incrociando un diagonale imparabile. A Roma, in uno spettacolare quattro a quattro coi giallorossi di Spalletti, ricamò lo stesso tiro ma stavolta di destro. In tutto otto reti, alla sua prima stagione in Serie A. Compreso un gol di mano all’Atalanta. Altra mano de Dios. Quest’anno a Napoli, Lavezzi è arrivato da campione olimpico: medaglia d’oro con l’Argentina a Pechino. In Cina ha segnato due gol. E di lui, Messi, Riquelme e Aguero, quest’ultimo il genero di Maradona, si è parlato come la magnifica banda dei quattro della nazionale biancoceleste. La vittoria alle Olimpiadi è stata anche il prestesto per il suo diciannovesimo tatuaggio. Sul suo corpo, infatti, il Pocho ha disegnato di tutto. Il nome del figlioletto Thomas avuto dalla moglie Debora. Una pistola all’altezza della pancia. I nomi dei familiari scritti con gli ideogrammi cinesi. Il prossimo tatuaggio, il ventesimo, vorrebbe dedicarlo a una vittoria importante del Napoli. In campo gioca col sette: un ripiego, perché lui avrebbe voluto lo stesso numero del San Lorenzo, il ventidue. Fuori dallo spogliatoio i suoi amici più cari sono altri due giocatori del Napoli: il terzo portiere Navarro, argentino come lui, e l’uruguaiano Gargano. Spesso vanno a cena fuori sul lungomare e si racconta di sfide a boccali di birra o bicchieri di vino. Di qui la tendenza a ingrassare. Sulla vita notturna del Pocho c’è già un episodio misterioso. Venerdì notte dell’autunno di un anno fa. In via Chiatamone, nel centro della movida partenopea, Lavezzi e la moglie escono da un locale e salgono in auto. Poi tamponano una Mini con due ragazzi a bordo. Cominciano a litigare e volano pugni. Addirittura, riferiscono le cronache locali, la donna di Lavezzi, Debora, si sarebbe tolta la cintura per colpire al volto uno dei due con la fibbia. Solo leggenda metropolitana? Può darsi. Pur prendendo una quantità di calcioni a partita, Lavezzi in mezzo al campo ha perso una sola volta la pazienza. È stato il due ottobre scorso a Lisbona, quando il Napoli è stato eliminato dalla Coppa Uefa nel match di ritorno col Benfica. L’allenatore azzurro Reja lo ha sostituito e lui lo ha mandato a quel paese: «Perché mi fai uscire?». Reja voleva che giocasse solo sulla fascia sinistra senza andare a pestare i piedi a Russotto su quella destra. Ma è impossibile educare tatticamente uno come il Pocho. Dopo Maradona, è stato il primo giocatore del Napoli cui le curve del San Paolo hanno dedicato un coro ad personam. Adesso ha pure una nuova casa che affaccia sul golfo. Una villa a tre piani che sembra una reggia. E se poi gli chiedono in un’intervista che vuol dire Pocho, lui risponde: «Non vuol dire niente, è solo un vezzeggiativo». Fabrizio d’Esposito

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