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È un bell’uomo e veniva, veniva dal mare

L’è un bell’omo, come si dice dalle sue parti, e viene dal mare, il mare livornese del paese di San Vincenzo, pineta e spiaggia. Sul mare ha sempre lavorato, ad Acireale per cominciare, a Livorno, Reggio Calabria, Genova versante doriano, oggi Napoli, con l’intermezzo di un solo anno nell’entroterra toscano, a Pistoia. D’altra parte, i Mazzarri sono gente di mare, originari dell’Elba prima che il Walter nascesse in terraferma, a San Vincenzo, subito impregnato di sale marino che gli ha fatto una scorza dura e lo eccita all’inverosimile.L’adrenalina di Walter Mazzarri nasce proprio dall’eccesso di iodio del Tirreno che ha immagazzinato da ragazzo e gli esalta la tiroide. Perciò è un uomo elettrico, una dinamo umana, un perpetuo arco voltaico. Da ragazzino con un salto solo balzava sui rami dei pini marittimi del suo paese. Giunto a contatto col Vesuvio e stabilitosi nell’ardente zona flegrea, Mazzarri ha accresciuto il suo ciclo adrenalinico. Ed eccolo qui che si toglie la giacca e vive le sue partite in maniche di camicia con qualunque tempo. Di fuoco ne ha tanto dentro che scioglierebbe la neve se nevicasse mentre lui sta a bordo campo.
Lupo solitario (non vuole sentirselo dire, ma poi confessa che è così), si tiene distante da combriccole, clan e giri di quelli che possono, nessuna comunella con i giornalisti, tanto meno con procuratori e piazzisti di allenatori. Perciò Mazzarri passa per arrogante, spigoloso, superbo e vangelo calcistico in terra, e pertanto riesce poco simpatico al “sistema” che gli nega premi come meriterebbe (ma un Premio Prisco sì, un Premio Eccellenze di Napoli sì) e lo esclude dai riconoscimenti immortalati nei grandi almanacchi del calcio. Ma i premi gli vengono dalle sue classifiche e dai dieci anni da allenatore senza essere mai esonerato. Quella lenza di Aldo Agroppi di Piombino, toscano dalla lingua tagliente, che non risparmia nessuno, un giorno ha detto: che altro deve fare Mazzarri per essere riconosciuto come un grande tecnico, vincere la Milano-Sanremo?
Intanto Walter sta vincendo a Napoli, terra di sogni e di chimere, soprattutto terra difficile nel calcio, perennemente sospesa fra esaltazioni e depressioni, l’umore tipico della gente avvolta nello scirocco. Mazzarri vince, batte tabù e conquista record. Mai il Napoli aveva vinto otto partite in trasferta, neanche ai tempi di Dieguito. Mai un attaccante azzurro aveva segnato 22 gol come il mitico Vojak negli anni Trenta, e Cavani supererà quest’altro primato storico. Mai un portiere era rimasto così a lungo imbattuto al “San Paolo” come Morgan De Sanctis (798 minuti, polverizzando il record di 763 minuti di Castellini) e mai il Napoli aveva incassato così pochi gol in casa (mezzo gol a partita). Da tempo il Napoli gemeva col Cagliari, col Genoa e con la Roma, e la squadra di Mazzarri le ha fatte fuori. Mai, dopo il pibe, le retrocessioni, il fallimento e la serie C, il Napoli si era avvicinato così tanto alla vetta, preoccupando Milan e Inter. Mazzarri ha ottenuto tutto questo e, alla fine, faremo altri conti.
Consigliato dallo Spirito Santo (di cui non si conoscono nome e cognome), e non più dalla zia di Milano che gli aveva segnalato il vicino di casa Donadoni, il presidente hollywoodiano Aurelio De Laurentiis, dopo un leggero dubbio fra Delio Rossi e Roberto Mancini, sceglie Walter Mazzarri in un benedetto giorno di metà ottobre del 2009. E il livornese di scoglio, definizione attribuita a chi, come Mazzarri, sa camminare sulle asperità, distinguendolo dai livornesi di sabbia, che hanno un cammino più morbido, ripaga a tambur battente la fiducia presidenziale acciuffando risultati all’ultimo respiro. Vince la prima partita, contro il Bologna, al 91’. A Firenze vince all’88’. Col Milan pareggia al 93’. Batte la Juve a Torino all’82’.
E’ vero che Arrigo Sacchi, antico profeta, aveva enunciato i quattro principi fondamentali delle vittorie che sono “occhio, pazienza, memoria e bus de cul”, ma, così, a prima botta de cul, le vittorie immediate di Mazzarri all’ultimo istante sollevarono una perplessa ammirazione. Quale diavolo ci eravamo messi in casa? Ma poi la cosiddetta “zona Mazzarri” non era una novità assoluta dell’allenatore di folto capello, né un subitanea intesa di Walter con san Gennaro. (In seguito, il cardinale Sepe, benedicendolo all’inaugurazione del nuovo campo di calcio del Seminario, ha sospirato: “Se tutta la cittadinanza seguisse l’esempio della squadra di calcio, la città di Napoli sarebbe in serie A”). Era, invece, una “zona” già collaudata a Reggio Calabria e a Genova dove aveva risolto a questo modo 19 partite e ne ha già risolto 19 nei due anni napoletani fra campionato e coppe.
Questo, per così dire, è il suo trend delle giornate adrenaliniche, vittorie memorabili al cardiopalma che gli hanno procurato la cittadinanza onoraria di Reggio Calabria, la maledizione perpetua dei tecnici gabbati sul filo di lana e il visibilio del “San Paolo” dove nessuno ricordava più, dai tempi del Napoli vibrante di Luis Vinicio, una squadra azzurra tanto irriducibile. E così il figlio del panettiere di San Vincenzo livornese, che l’avrebbe voluto tenere a bottega, diffidando delle glorie calcistiche, si è fatta la sua fama di allenatore che non la dà mai vinta a nessuno e che, quando perde, non ci dorme la notte e dà fondo ai dieci pacchetti di sigarette sempre a disposizione, primo allenatore multato, quand’era alla Reggina, dopo essere stato sorpreso dal grazioso Tombolini con la sigaretta in bocca (era scattato il divieto di fumo in panchina).
Quest’uomo solitario e vincente vive a Pozzuoli, tra le colline di San Vito, alle spalle di via Campana, consegnandosi a una esistenza “casa e chiesa”, Pozzuoli e Castelvolturno. D’altra parte, quando allenò il Livorno si rintanò a Tirrenia, stazione balneare di grido, ma landa deserta d’inverno. La popolarità mi imbarazza, dice. Sorpreso da alcuni tifosi in un bar flegreo mentre mangiava una brioche, la lasciò a metà e scappò via non resistendo alle profferte d’amore, di stima e di simpatia dei fans azzurri.
Nei pressi di Pozzuoli, ad Arco Felice, giocò la sua prima partita da allenatore. Debutto memorabile concluso con un pareggio (1-1). Era sulla panchina dell’Acireale in C2 (prima di lui avevano licenziato undici allenatori) contro la Puteolana, 23 settembre 2001. A Pozzuoli è tornato, per scelta di vita e scaramanzia (è fortemente scaramantico). Ed è tornato a Napoli dov’era stato, tredici anni fa, col suo maestro Ulivieri, allenatore in seconda al seguito del leninista di San Miniato (Pistoia), altra lenza toscana, preparatore specifico di Pinuccio Taglialatela e quattro volte in panchina a guidare il Napoli perché Renzaccio si faceva squalificare spesso e volentieri.
Mamma Edda ha sospirato tanto perché si prendesse “uno straccio di carta” e lui l’ha accontentata diplomandosi in ragioneria e facendo dodici esami alla facoltà di economia e commercio quando era già ritenuto, nella giovanili della Fiorentina, l’emulo di Antognoni. “Avevo talento e portavo il 10” ricorda. Adesso, con la parlata forbita e un po’ barocca, vivacizzata dalla cadenza toscana, Walter Mazzarri, diplomatosi a Coverciano con una tesi sull’allenatore in seconda e campione del mondo (Vialli e Ferrara con lui) con la nazionale militare, discetta e ci aggiorna sul calcio che sogna (un 3-4-3 votato all’offensiva “perché il bello del calcio è il gioco d’attacco”) e sui sogni di Napoli (“una città che ti trasmette adrenalina, come Madrid”). E noi tutti veniamo travolti dal suo parlare torrentizio che a fermarlo si fa fatica e si farebbe notte se lui potesse continuare. Perché Walter Mazzari è un maniaco del calcio, un fondamentalista delle tattiche di gioco e forse anche un po’ terrorista nello spogliatoio dove agita anime e tacchetti con voce tonante. Da giocatore ha girato undici squadre e sa bene come vanno le cose negli spogliatoi fra anime perse, gigolò dell’area di rigore, gregari e campioni che non sono ancora campioni. Da giocatore, lui, ha investito soldi in case, “non in belle macchine”. E neanche in playstation, si presume.
“La formazione l’ho sempre chiara” dice. E aggiunge: “Decido io, non il giocatore più importante”. E così chiarisce la sua monarchia costituzionale nello spogliatoio in cui il monarca Mazzarri non è condizionabile dal parlamento dei giocatori. Però è a loro disposizione a tutte le ore del giorno e della notte, “solo che i giocatori di notte dormono, così spero”. Anche De Laurentiis “potrebbe chiamarmi alle quattro del mattino, l’ha fatto una sola volta ma erano le sei e mezza”. Aggiunge: “Spesso lavoro anche nel sonno, il tempo non mi basta mai”.
Ed è un re martello, come riconosce lui stesso, “autorevole ma non autoritario”, pignolo e insistente nei dettagli, “perché il calcio non è una scienza esatta, ma è abbastanza preciso”. Ma così “preciso” a Napoli nessuno se lo aspettava, cioè non ci aspettavamo che, abbandonati dall’Ingegnere e risorti dalle ceneri di Corbelli e Naldi, potessimo rivedere una squadra con un senso di gioco raccogliendo risultati immediati. Faticosamente rimesso su da Pierpaolo Marino con pezzi pregiati, giocatori d’avvenire, gioielli sparsi, ma anche, inevitabilmente, mezze calzette, mezzi calciatori, mezze promesse, e col ritocco finale di Edinson Cavani, il Matador di cappa e gol catturato abilmente da De Laurentiis, il Napoli è risorto e il mastice di Mazzarri, dopo il difficile e generoso contributo di Edy Reja, il Clint Eastwood della scalata in serie A, ne ha fatto un blocco unito in cui pare che tutti si vogliano bene e tutti vogliono bene al Napoli. E così sono tornati i tempi di felicità e di oje vita oje vita mia, nientemeno che proiettati lassù dove osano i Biscioni e i Diavoli e, una volta, anche le Zebre.
Si dirà: un campionato miracoloso. Sarà pure vero nello spazio lasciato vuoto dalla Juve decadente, dalla Roma in ambasce, dalle promesse mancate del Palermo, dal tonfo della Sampdoria, dal Genoa in retromarcia, ma il Napoli si è infilato subito fra le squadre che contano e che cantano, spesso cantando molto bene, agguantando il secondo posto alla sesta giornata, cedendo, scalando al terzo, riemergendo al secondo e, da quattro turni, stabilmente terzo dopo la rimonta dell’Inter. E ora si fanno tabelle e tabelline per questo finale di torneo, otto giornate ancora da giocare, con le prime quattro squadre (achtung all’Udinese!) in soli sei punti, e tutto può succedere dice De Laurentiis, neofita entusiasta di queste situazioni. Nei prossimo quattro colpi il Napoli si gioca gloria e baldoria: Lazio in casa, Bologna fuori, Udinese in casa, Palermo fuori. L’ordine perentorio è prendere punti nei confronti diretti (Lazio e Udinese) a difesa del terzo posto e dell’ingresso trionfale in Champions League. Il resto chi vivrà vedrà con l’Inter che pare abbia il calendario meno ostico (ma anche la Champions da smaltire), il Milan in crisi di gioco e di risultati e questa scatenata Udinese che sta venendo su a passo di carica (13 risultati utili consecutivi, 10 vittorie e l’impressionante score di 19 gol a zero nelle ultime sette partite).
Il Napoli deve guardarsi soprattutto alle spalle mandando a vuoto l’assalto dei friulani. Il resto è sogno. Dice Mazzari: “Il mio più grande orgoglio è l’affetto che ho lasciato ovunque”. Gli vogliamo già bene a questo toscano dalla parola barocca, non potevamo sperare di meglio l’estate scorsa. E via col possesso-palla e “almeno cinque soluzioni diverse di gioco, il segreto è la rapidità di esecuzione delle varianti”. Vietato esultare quando si segna, ne va di mezzo la concentrazione. Bisogna stare attenti fino al 90’ e oltre. Nello spogliatoio del Napoli c’è una gigantografia con Mazzarri che indica l’ora, cioè l’ora del giubilo a cose fatte e a partita chiusa. E, intanto, lui va in campo tenendo in tasca l’ormai famoso amuleto degli ebrei e dei musulmani, l’hamsa, che porta scritta la preghiera del viaggiatore. Viaggia bene, Mazzarri.
Mimmo Carratelli

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