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Maggio-Dossena Nazionale addio per il modulo

L’Italia nuova si chiama Cesare Prandelli. E’ lui il cittì che deve far ritrovare l’amore per l’azzurro al popolo della Nazionale dopo le delusioni agli ultimi Europei e agli ultimi mondiali. E’ lui che deve scoprire i tesori italiani nell’oceano di stranieri che popolano il nostro campionato. E’ lui che deve far maturare Balotelli, Cassano e altri se ce ne sono per ridare vita a un calcio che sta sbiadendo non solo per colpa degli scandali. È lui il giro di boa.
Dopo quattro mesi di lavoro può fare un bilancio?
«In prospettiva, positivo. L’Italia è già squadra, in alcune partite si è visto lo spirito giusto. Eravamo partiti con una gran voglia di ricostruire, sapendo che attorno a noi c’era poco entusiamo. Siamo in testa al nostro gruppo, il primo obiettivo è la qualificazione all’Europeo».
E dopo?
«Io lavoro poco con i giocatori. Se li avrò con me tre settimane, in ritiro, allora potrò vedere l’Italia giocare come piace a me e anche ai tifosi. Ora non posso chiedere troppo ai singoli. Spiego un concetto. Nelle loro stanze lascio alcuni appunti. Di più, in pochi allenamenti, al momento non si può pretendere. Né insegnare».
Nonostante le difficoltà a trovare talenti da Nazionale, dà l’impressione di essere soddisfatto. Perché?
«Io ho chiesto ai calciatori di mostrare in campo entusiasmo e coraggio. Lo stanno facendo e la gente sta apprezzando lo sforzo».
L’Italia, però, è quattordicesima nel ranking Fifa. Preoccupato?
«No. Tre nostri club si sono qualificati per gli ottavi di Champions: un segnale importante. E noi italiani, nelle difficoltà, ci ritroviamo sempre. Le amichevoli non ci interessano, ma quando ci sono i tre punti difficilmente sbagliamo. Siamo in un momento particolare, ma basta una striscia di risultati».
Da giocatore, ha vissuto in prima persona la Juve di Trapattoni. Che poi era l’Italia campione del mondo in Spagna. Oggi i blocchi non sono proprio più possibili?
«Sarebbe un bel vantaggio, ma non ne vedo. E nelle ultime nostre gare avrete notato come i giocatori siano di diverse squadre. E comunque, andando a prendere un gruppo, bisogna valutare il momento dei singoli. Attualmente molti giocatori stanno bene, chissà se lo saranno a fine febbraio quando li dovrò chiamare io. La più italiana è la Juventus, come poi ci ha sempre detto la storia della Nazionale. Ma anche lì c’è da verificare il rendimento di ogni giocatore. Ad agosto, cioè subito, ho capito che non era quella la strada».
Perché?
«Andai a Milano per la Supercoppa italiana, Inter contro Roma, le prime due del campionato scorso. Solo quattro italiani in campo e con età media di trentadue anni».
Ma giovani validi proprio non ci sono?
«Qualcuno c’è. L’ultimo chiamato, Ranocchia, mi sembra affidabile. Ma bisogna aver pazienza. Io seguo i grandi giocatori, perché la Nazionale è un’altra cosa. Ci vuole gente che regga la pressione. Io spero di avere presto un gruppo di trenta giocatori: da Nazionale, appunto».
In pochi mesi il suo lavoro è cambiato: non è più allenatore. Come sta vivendo la novità?
«A me il campo e mi manca tantissimo. Posso starci solo qualche giorno e non quotidianamente. Mi limito a spiegare poche cose, in modo che a loro restano bene impresse. Quello che ho chiesto, è stato recepito. C’è disponibilità. E attrazione. Io ne ho convocati molti e altri si propongono. L’intenzione di tanti è di mettersi in discussione. Alla fine, però, conta la personalità».
Cassano e Balotelli insieme solo una volta, nella sera del suo debutto a Londra contro la Costa d’Avorio. Quando li convocò era convinto di aver risolto i problemi dell’Italia dopo il flop in Sudafrica?
«Il discorso è diverso. Lippi aveva fatto scelte coerenti con i risultati ottenuti in precedenza. Io ho pensato di chiamare i due perché volevo lavorare con calciatori di qualità. Ma anch’io, vinto un mondiale, sarei stato riconoscente a vita. Lippi ha tutelato il gruppo».
Di sicuro ha accontentato i tifosi azzurri che volevano Cassano e Balotelli.
«Il tifoso si vuole riconoscere nella squadra che gioca un buon calcio. Se io ho i giocatori per due-tre giorni è chiaramente impossibile. Così ai ragazzi chiedo di trasmettere entusiasmo, coraggio, gioia e ovviamente qualità. Il messaggio deve essere chiaro e già si vede».
Prima ha parlato di qualità. Pensa che in Italia ce ne sia?
«Sì. Ma non c’è grande scelta. Perché Totti, Del Piero e Maldini non nascono tutti i giorni».
E allora?
«Il nostro movimento ha voglia di cambiare. Bisogna puntare sulle qualità tecniche e comportamentali. Ragazzi liberi di testa, già nei vivai, non ingabbiati da schemi o tatticismi».
Come si arriva, nei settori giovanili, alla qualità?
«Con le selezioni, puntando sui più dotati tecnicamente. Io ho lavorato a lungo in quello dell’Atalanta. Portammo cinquanta giocatori in A. Ma il presidente Percassi investì proprio su noi allenatori: io, Vavassori, Perico, Gustinetti e Finardi. Se non metti sotto contratto i tecnici, a tempo pieno, tutti lo fanno per hobby, dovendosi mantenere con un altro lavoro. Lavorando ogni giorno sull’abilità tecnica, riesci ad avviare un processo di crescita, con un marchio di qualità».
Consiglierebbe a tutte le formazioni di un vivaio lo stesso modulo?
«No. Se hai tre bravi trequartisti di sedi anni li devi fare coesistere. Per valorizzarli»
Gioco o risultato?
«Ho cercato lo spirito di squadra, come prima cosa. E già c’è, i giocatori si muovono con personalità e, lo ripeto ancora, mostrano coraggio. Poi però devo guardare pure al risultato, per andare all’Europeo: lì troverò il gioco. Ne sono sicuro».
Quello della Fiorentina nel primo tempo contro il Liverpool al Franchi?
«All’intervallo, io e il mio staff eravamo entusiasti. Perché non avevamo niente da rimproverare ai calciatori. Tutto come volevamo, a cominciare dai tempi di gioco. Lì ho capito che non si improvvisa niente nel nostro mestiere».
Perché in Italia non si può copiare il Barcellona?
«Perché in Spagna c’è un’altra cultura. Lì la partita è un evento, è spettacolo. Poi c’è il risultato. Se vinci, ma giochi male, il pubblico non torna a casa contento. Da noi se segni al novantaquattresimo, un tifoso non solo esulta, ti fa anche il gesto dell’ombrello. E’ il massimo ottenere il successo in extremis, senza nemmeno averlo meritato».
Si sente il capo dei nostri tecnici?
«No. In questa fase professionale sto facendo un lavoro diverso, ma comunque affascinante, sfruttando il lavoro dei miei colleghi. Seguo le squadre più organizzate».
C’è Sacchi di nuovo in Nazionale: portò un’autentica rivoluzione nel movimento, da allenatore di club. Pensa che i suoi colleghi abbiano imparato molto da lui?
«Non tutti. Perché c’è pure chi, per scimmiottare i suoi metodi, ha azzerato la qualità, limitando i giocatori».
Adesso Sacchi si ritrova a Coverciano con Roberto Baggio: inseime persero il mondiale ’94 ai rigori. Sono due opposti, il primo punta sull’organizzazione, l’altro sulla qualità. Come sarà la convivenza tra loro?
«Avremo il top dell’equilibrio».
Quali ruoli sono scoperti nella sua Nazionale?
«Non ho esterni d’attacco, non ci sono italiani in quel ruolo. Ad un certo punto mi sono accorto che avevo solo Pepe e nemmeno la sua alternativa. Ho dovuto cambiare la mia idea di partenza. Ho lasciato il quattro-due-tre-uno e sono passato al rombo. Io devo costruire l’Italia sulle caratteristiche dei giocatori migliori. Davanti e a centrocampo ho scelta, dietro non ho molti terzini, anche se Cassani e Antonelli hanno fatto bene».
Non chiama giocatori del Napoli che sta andando forte. Spieghi?
«Me lo chiedono tanti napoletani. Maggio e Dossena sono in gran forma, ma il sistema di gioco usato da Mazzarri non è quello che utilizzo io con la difesa a quattro. Metterei in difficoltà loro due che sono bravi».

Ha già convocato due oriundi: come mai?
«I nuovi italiani hanno spesso più personalità. Mostrano carattere, forse perché hanno sofferto al momento di lasciare il loro paese».
Con gli oriundi, però, sono ancora i giovani a rimetterci. Così non rischia di snobbare i più promettenti?
«In tutte le discipline ci sono i nuovi italiani. Il calcio, come al solito, è arrivato per ultimo. Il problema per i giovani è un altro: il numero elevato degli stranieri».
Da cittì si sta accorgendo all’improvviso che i nostri tecnici guardano troppo all’estero al momento di scegliere nuovi giocatori?
«Quando tornerò allenatore di club mi ricorderò di questo concetto».
Chiamerà altri giocatori nel 2011?
«Non credo, punto su qualche ritorno».
Allora è scontato il regalo che ha chiesto a Babbo Natale.
«Spero che Cassano riprenda a giocare al più presto. Per poterlo riavere con me».
Insisterà, insomma, su Cassano e Balotelli?
«Sì. Con loro ho più opzioni. Dietro a una punta o da soli e larghi. Sono due attaccanti atipici ed entrambi preferiscono giocare a sinistra. Ma non voglio farne a meno. E non è vero che non tornano. Aiutano. La squadra, però, deve stare più alta».
Può chiarire, una volte per tutte, la sua posizione sul ritorno in azzurro di Totti?
«Cassano mi ha messo in difficoltà. Non chiamerò mai Totti per un’amichevole: sarebbe un’offesa per gli altri, ultimo Maldini, usciti dal giro. Lo convocherei solo se ne avessi bisogno, cioè se proprio non posso fane a meno perché non ho nessuno nel suo ruolo. L’idea di Cassano non era di natura tecnica. Voleva ritrovare un amico».
Tre giocatori della Lazio fanno parte del suo gruppo: merito dei risultati della squadra di Reja?
«Anche, ma soprattutto delle caratteristiche dei singoli. Mauri inizialmente non giocava, ora è un titolare anche in azzurro. Ledesma ha nel dna la costruzione del gioco. Floccari una sorpresa: lavora per la squadra e non solo un finalizzatore».
Il campionato italiano sembra mediocre rispetto al passato?
«A me piace e l’equilibrio mi va bene. Allegri non è un millantatore, ha dato subito risposte rivoluzionando il modo di stare in campo del Milan. Così è andato in testa».
Guardiola è il più bravo dei suoi colleghi?
«Lo affrontai in amichevole con la Fiorentina: gli feci i complimenti. Per l’organizzazione e per il possesso palla mai fine a se stesso».
Prima ha raccontato dei suggerimenti per iscritto che fa trovare in camera ai suoi giocatori. Lo sa che anche Mazzone faceva così?
«Un maestro. Come Liedholm con il possesso palla. Aveva anticipato il Barcellona delle triangolazioni. Ma lo svedese allenava il gruppo soprattutto sulla tecnica. Nessuno fa più palleggiare contro il muro, purtroppo. Ma avere fisico non basta».
Ugo Trani (Il Messaggero)

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