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L’altra vita dopo il 90′,
i miracoli di Cavani

Anche in questo preciso momento, mentre voi leggete e ogni cosa sembra accaduta, la messa finita, i tifosi andati in pace, anche ora non si può escludere che Edinson Cavani stia segnando. Fuori tempo massimo, fuori da ogni logica, ma che altro è la fede? La partita di calcio è un rito collettivo, la celebrazione di una speranza condivisa. Sintesi di questo supremo anelito è l’idea di una vita oltre la vita, ovvero di un gol oltre il novantesimo che per definizione, finanche televisiva, rappresenta il sipario. Laddove la sua calata non venga accolta come un nuovo inizio.
Accade a Napoli, dove altro sennò? La città si presta, la sua anima lo pretende. Quando il quarto uomo alza il tabellone dell’agonia supplementare altrove si mettono la sciarpa e s’incamminano, al San Paolo si tolgono la giacca e se la giocano. Cominciò già l’anno scorso, all’arrivo di Mazzarri in panchina. Era chiaramente un rito, lui in maniche di camicia biancotalare, muta la folla, un cielo squarciato d’azzurro, il riverbero di tutti i momenti di sacra follia partenopea: le lacrime di sangue sul volto di San Gennaro, la Bibbia tradotta da Erri De Luca evocando angelici voli dai terrazzi di Montedidio, la telecronaca di Alvino & Auriemma da Torino al gol del 3 a 2 sulla Juventus: “Vogliamo morire adesso, seppelliteci qui!”, “Grazie Dio che m’hai fatto tifoso del Napoli!”. Mancava, era evidente, soltanto un sacerdote all’altezza della cerimonia. Maggio, Hamsik, Lavezzi erano chierichetti. Poi l’estate scorsa èarrivato lui, don Edinson Cavani, il centravanti in missione per conto di Dio.
Nell’infanzia la sola vocazione che gli si era presentata era quella calcistica, ma già il padre lo portava al campetto come a una funzione domenicale e gli insegnava che c’è una provvidenza dietro gli schemi. Tortuose le sue strade. Il profeta s’affacciò al giovane Edinson sulle rive del Danubio, intesa come squadra in cui giocava diciottenne. Si chiamava Julio Cesar Gonzales e gli parlò di Cristo mentre tornavano dall’allenamento, le borse in spalla. Cavani domandava, quello rispondeva, non era una chiamata, soltanto uno squillo. Ma pochi anni dopo, sbarcato a Palermo, se lo ritrovò curiosamente davanti, senza né ingaggio né futuro. Date un tetto a chi non ce l’ha. L’accolse, ne ascoltò la parola, luce fu. Cavani prese il numero 7, che l’Antico Testamento ricopre di significati. Quando arriverà a Napoli esigerà, soddisfatto, che se ne svesta per darglielo addirittura Lavezzi.
Il Cavani di Palermo è una promessa, un giovane dotato con l’apparecchio ai denti e la moglie ragazzina. Uno la cui casa è aperta a tutti, inclusa la suocera e il gatto Simplicio. Più che un appartamento, una parrocchia. Gioca, quando gioca, seconda punta. Reclama la prima fila, invano. Delio Rossi trova difficile parlargli. Devoto, ma spigoloso. Chi lo ha visto nel fortunato mondiale dell’Uruguay non si è lasciato convertire: chiuso tra l’onnipotenza di Forlan e le diavolerie di Suarez è sembrato un mistero glorioso. Come misteriosa è rimasta l’aggressione del 9 dicembre 2009, l’auto su cui viaggiava presa a colpi di catene da sconosciuti per motivi mai chiariti. L’effetto: chiede a Zamparini di essere ceduto. A chi? A chi lo faccia giocare prima punta, a chi gli dia tutto lo spazio e il tempo disponibili e anche quelli che non lo sarebbero, a chi creda in lui e in Lui. Che finisca a Napoli è quasi doveroso. All’inizio sembra che lo prendano al posto di Denis. Poi vendono Quagliarella. Infine si fa male Lucarelli. E Cavani resta solo, come voleva e come era scritto: uno, ma come fosse trino. Si stabilisce fuori città. Riceve a domicilio il messo evangelico.
Mette incinta la moglie. Non risponde a domande sulla camorra. Va in campo e segna. Praticamente sempre. Se Quagliarella faceva (e fa) i gol impossibili, Cavani li fa tutti. San Paolo stadio adora il suo volto da Gesù Cristo pasoliniano (benché al prosaico presidente De Laurentis ricordi più Massimo Ranieri). Gli dedicano una pizza, un amico campano solitamente misurato mi scrive: “Quando segna Cavani penso alla pace nel mondo”. Da piccolo era El Botilla per l’esile struttura, da grande è diventato El Matador per come trionfa nell’arena, ma ecco affacciarsi El Salvador, dispensatore di miracoli annunciati. Perché quando la fede diventa pratica domenicale il pubblico comincia ad aspettarsi che ogni volta l’evento si compia. A esser laici non è altro che una scelta strategica: non accontentarsi del pareggio, piuttosto perdere, ma provare a vincere, dunque aprirsi e rischiare, Grava salva sulla linea evitando lo 0 a 1, poi palla avanti. Ma è difficile restare scettici quando il 7 azzurro prende quel pallone inoffensivo e compie una transustanziazione sportiva, due gesti, una prece e lo trasforma in gol, furor di popolo, liberazione. Ora, proprio in nome di Dio, il calcio si ferma. Qualcuno lo dica a Cavani.
Gabriele Romagnoli
(tratto da Repubblica)
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