Se la Roma avesse subito gol con un proprio giocatore a terra…
La doppia morale mediatica del nostro calcio. Ci si indigna per le offese alla mamma di Hermoso, silenzio sulla Roma che gioca con un comasco che si fa mele e Mancini che si improvvisa wrestler

Dc Roma 06/04/2024 - campionato di calcio serie A / Roma-Lazio / foto Domenico Cippitelli/Image Sport nella foto: Gianluca Mancini
Se la Roma avesse subito gol con un proprio giocatore a terra
Viva. Viva il gol della Roma con l’uomo a terra. Viva l’antimorale nostrana, che non è mai morta: al massimo si è fatta una doccia, ha rimesso la giacca buona e si è seduta composta in tribuna. Viva il “si gioca finché l’arbitro non fischia”, versione calcistica che ci piace ma che trova interpretazioni a seconda da chi ne trae danno. Perché poi, diciamolo piano, a parti invertite avremmo letto l’Apocalisse secondo San Trigoria. Pagine e pagine di pianti, editoriali grondanti indignazione, talk show in lutto stretto, hashtag morali che scorrono come il Tevere in piena. Invece no. Così va il mondo quando l’etica è a geometria variabile. E se al piatto aggiungiamo l’impunito wrestling finale di Mancini, ecco servita la capovolta narrazione capitolina. Il fallo diventa “foga agonistica”, la spallata sull’occhio di un ventenne “un contatto di gioco”, e Ramon, seppur forte, per decreto popolare diventa improvvisamente indistruttibile con il commento di Mancini che invoca il rispetto per gli anziani, un nonnismo da caserma che, visto i tempi che viviamo, non ci stupisce ma ci fa rabbrividire. È ragazzo e va picchiato. Nel calcio italiano la tutela dei giovani vale solo nei convegni, possibilmente con buffet finale. La settimana prima, però, la sconfitta di Cagliari si era tutta concentrata sull’alterco tra Folorunsho ed Hermoso. Un alterco, non una rissa vera. Ma lì si è scomodata la lealtà sportiva, il rispetto degli avversari, il galateo del pallone, neanche stessimo giocando a cricket sotto il re . Tutti maestri di fair play, col ditino alzato e la faccia severa.

Poi però la lealtà cade, mesta, quando c’è da segnare con l’uomo a terra. O quando una spallata diventa una carezza perché la maglia è quella giusta. È il calcio all’italiana, che non ama le regole: le tollera, le interpreta, le piega come un giornale vecchio e alla fine le usa per incartare il pesce del lunedì. D’altronde in Italia, specie nello sport ma non solo, vige da sempre la norma più rispettata di tutte: “finché non tocca a me”. Vale sul prato verde e negli uffici open space, in Parlamento come nei consigli di classe, a tavola la domenica e perfino nelle chat di famiglia. Finché non tocca a me, tutto è spiegabile, giustificabile, contestualizzabile. Quando poi tocca a me, diventa uno scandalo, una congiura, un complotto internazionale con sede a Coverciano. Se avesse segnato Posch in quella maniera, oggi leggeremmo di crisi di accerchiamento e ingiustizie sportive. Se Kempf avesse abbattuto Soulé così, avremmo avuto replay al rallentatore come film d’autore, con musica triste e titoli a nove colonne: “Dov’è finito il rispetto?”. Invece no. Tutto bene. Perché il gol della Roma è strabello. E lo è davvero, sia chiaro: il punto non è il gesto tecnico, che resta. Il punto è evitare di fare la morale agli altri se poi si è sullo stesso livello.
Viva dunque l’antimorale nostrana. Che non fa mai gol, ma vince sempre la partita del racconto. E in tribuna stampa, come spesso accade, qualcuno applaude. Con moderazione, s’intende. Per correttezza.











