La Vuelta, ossia il ciclismo è rimasto l’ultimo sport della rivoluzione: si può blindare uno stadio non una strada (Guardian)

"Lo sport è sempre più un veicolo del potere più spietato, non si può più spacciare come uno strumento di pace"

Vuelta

Pro-Palestinians protestors invade the street during the 21st and last stage of the Vuelta a Espana 2025, a 101 km race between Alalpardo and Madrid, near Atocha station in Madrid on September 14, 2025. The authorities have ramped up security for the Vuelta's final stage in Madrid, which was slightly shortened and will see 1,100 police officers deploy in the Spanish capital. (Photo by Pierre-Philippe MARCOU / AFP)

La Vuelta, ossia il ciclismo è rimasto l’ultimo sport della rivoluzione: si può blindare uno stadio non una strada (Guardian)

“Se le ultime tre settimane, piene di rancore e caos, ci hanno insegnato qualcosa, è il gran numero di terroristi che sembrano aver operato nel ciclismo professionistico, sebbene molti armati di nient’altro che gel energetici”. Jonathan Liew si riferisce con il suo usuale sarcasmo alla “rivolta” della Vuelta, l’ultimo episodio di sport riportato alla sua natura profondamente politica.

Ovviamente il dibattito successivo alla stretta cronaca ha girato attorno all’opportunità o meno che lo sport finisca invischiato in questioni enormi di politica internazionale. “E’ stato surreale – scrive l’editorialista del Guardian – vedere una delle più grandi gare ciclistiche del mondo con le ginocchia zoppe, vedere Vingegaard, João Almeida e Tom Pidcock sul loro podio improvvisato nel parcheggio di un hotel, con la cerimonia ufficiale della vittoria annullata, il momento di giubileo offuscato per sempre. C’è una dissonanza di fondo. Puoi spacciare il tuo evento come una forza unificante, uno strumento di pace. Oppure puoi permettergli di diventare uno spazio pubblicitario per un regime che (secondo una commissione delle Nazioni Unite) ha commesso un genocidio. Ma non puoi fare entrambe le cose”.

Perché il team Israel-Premier Tech nasce per fare “diplomazia sportiva”, “un cartellone pubblicitario mondiale per conquistare cuori e menti alla causa israeliana”, di vincere se ne fregano. E’ “un modello già sperimentato dai regimi autoritari spietati degli Emirati Arabi Uniti (UAE Team Emirates), del Bahrein (Team Bahrain Victorious) e del Kazakistan (XDS Astana)”.

La questione più ampia è cosa succede quando gli organi di governo e gli amministratori permettono che il loro palcoscenico venga utilizzato come parco giochi per attori statali. L’investimento è positivo. L’investimento è sicuro. L’investimento aiuta a mandare avanti lo spettacolo. Ma ovviamente c’è una sorta di cecità volontaria all’idea di poterne intrattenere il coinvolgimento senza doverne affrontare le conseguenze politiche. Portate stati in guerra nello sport e in breve tempo il campo di battaglia sportivo assomiglierà moltissimo a quello reale”.

“Lo sport come forza unificante. Lo sport come strumento di pace. Certo, come no: buona fortuna”.

“Potremmo citare numerosi altri esempi: il modo in cui la crisi diplomatica tra Qatar e Arabia Saudita si è evoluta nelle sale riunioni del calcio europeo. Un Mondiale di calcio maschile del 2026 ribattezzato il carnevale Maga di Donald Trump. I tifosi del Newcastle stanno scoprendo che il loro biglietto d’oro per la gloria eterna è in balia di qualsiasi cosa un piccolo membro della famiglia reale saudita abbia deciso di mettere in cima alla sua lista di cose da fare. In tutto il mondo, lo sport è diventato sempre più un veicolo non solo di propaganda di stato, ma di potere spietato, un teatro di guerra, anche se non lo si chiama così”.

“Ciò che accomuna tutto questo è il fatto che tu – il tifoso, il tifoso, l’osservatore – non hai chiesto nulla di tutto questo. Forse lo sport un tempo era il luogo in cui cercavi rifugio dalla geopolitica, non uno scontro frontale con essa. E in questo senso, forse la militarizzazione strisciante del palcoscenico sportivo è uno specchio del mondo in generale: un mondo in cui il singolo cittadino è sempre più insignificante, un consumatore passivo dello spettacolo o una minaccia alla sicurezza da eliminare e – cosa importante – nient’altro”.

“In tutto questo, forse è possibile vedere le proteste della Vuelta non semplicemente come un atto di solidarietà palestinese, ma come un più ampio urlo di privazione dei diritti, del tipo che così raramente penetra i tornelli di ferro del Grande Sport. Forse il ciclismo è l’ultimo sport in cui è possibile una simile manifestazione, un diorama selvaggio e tentacolare in cui i molti possono ancora essere uditi sopra i pochi. Si può blindare uno stadio. Si possono confiscare bandiere e striscioni, diffondere musica ad alto volume dagli altoparlanti. Ma non si potrà mai controllare l’intera strada”.

Correlate